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 Il “Grande Torino” [1906]

Calcio
 
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            (gfc) “L’aereo del Torino, reduce da Lisbona, urta e precipita sulla collina di Superga”, questo l’agghiacciante titolo che apriva giovedì 5 maggio 1949 la prima pagina che La Stampa dedicava alla più grande tragedia dello sport italiano. Era scomparsa, tutta assieme, la squadra della leggenda: Bacigalupo, Ballarin I, Maroso, Castigliano, Rigamonti, Grezar, Menti II, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola. E con loro gli altri giocatori Ballarin II, Bongiorni, Fadini, Grava, Martelli, Operto, Schubert. I dirigenti Agnisetta, Civalleri, Erbstein, l’allenatore Lievesley, il massaggiatore Cortina. I giornalisti Luigi Cavallero, Renato Casalbore e Renato Tosatti. Gli uomini dell’equipaggio e il pilota. Trentuno persone.

               L’intera nazione venne gettata in un baratro di sgomento senza fondo. Il cordoglio fu autentico, unanime, profondo, e tutta l’Italia si sentì affratellata – in un momento sociale e politico di grandi divisioni e passioni lacerati – da un dolore comune e sincero. Il Torino era la squadra più amata. Da molti anni i granata dominavano incontrastati il campionato, costituendo l’ossatura della Nazionale. Nell’incontro del 1947, vinto per 3 a 2 sull’Ungheria (che schierava un giovanissimo Puskas), con rete decisiva di Loik all’ultimo minuto, la Nazionale scese in campo con dieci giocatori del “Toro” ed il solo Sentimenti IV della Juventus in porta. Anche per questo la tragedia di Superga ebbe l’effetto di decapitare il calcio italiano, gettandolo in un limbo di confusione tecnica dal quale sarebbe emerso, a fatica, solo un quarto di secolo più tardi.

                Il “Grande Torino” – come subito venne ribattezzato dal sentimento popolare – era stato costruito pezzo per pezzo negli anni di guerra. L’artefice di quel sapiente mosaico fu il ricco presidente Ferruccio Novo che aveva portato a Torino la coppia d’interni formata da Valentino Mazzola e Loik, strappata a sorpresa alla Juve, e acquistata dal Venezia per un milione e 250.000 lire. C’era, sullo sfondo, anche il miraggio dell’esonero dal servizio militare che Novo riusciva a garantire per chi svegliava la maglia granata. Così, anche il centravanti Gabetto lasciò la Juve. Alla corte granata giunsero via via Grezar, rilevato dalla Triestina, e Menti II, e sin dalla stagione 1942-’43, all’inizio del ciclo, l’allenatore Antonio Janni – il “gatto magico”, com'era soprannominato quando giocava da portiere nel Bologna – poteva contare su un assieme di grande qualità.

                Conclusa la guerra, il Torino continuò a rafforzarsi fino a comporre quella formazione che tutti i ragazzini italiani sapevano recitare a memoria, con enfasi cantilenante, capace di vincere lo scudetto per quattro anni di fila, con distacchi umiliati dalle altre. Dieci punti alla Juventus nel campionato 1946-’47, addirittura sedici a Milan, Juve e Triestina in quello 1947-’48. Erano nel frattempo arrivati il grande Bacigalupo, i terzini Aldo Ballarin e Maroso, il potente mediano Castigliano, il centromediano Rigamonti, la velocissima ala Ossola. Sono entrati nella storia del calcio i record stabiliti da quella squadra: i sei anni e dieci mesi di imbattibilità casalinga, le 125 reti segnate in un solo campionato, le vittorie più clamorose (il 10 a 0 in casa sull’Alessandria, il 7 a 0 in trasferta contro la Roma). Tutto finì in un tardo pomeriggio di maggio.

                Alle 17,05 di quel 4 maggio 1949. La squadra tornava da Lisbona dove aveva perso, in amichevole, per 3 a 4 contro il Benfica. L’aereo atteso a Caselle era un G-212 della LAI – la neonata compagna di bandiera italiana –, un volo charter affidato al comandante Meroni. Le condizioni atmosferiche su Torino erano cattive, c’erano raffiche di vento, pioveva a dirotto, la visibilità era al minimo. L’ultima comunicazione la torre di controllo la raccolse alle 16,59, quando l’aereo si trovava a 2000 metri di quota e si preparava alla discesa. Poi più nulla. Lunghi minuti di silenzio fino al terribile schianto contro il muro posteriore e il giardino della Basilica di Superga. Non ci furono superstiti.

                L'angosciante riconoscimento dei resti straziati, allineati su tre file, venne affidato alla pietà di Vittorio Pozzo, che li conosceva uno ad uno per averli spesso chiamati in Nazionale, ma che non li aveva mai voluti allenare con la maglia granata addosso per l’antica inimicizia con Novo. Piangendo, il vecchio CT – che nel 1906 era stato tra i fondatori del club – compì lentamente il suo compito ingrato. Mancavano quattro giornate alla fine del campionato, il Torino era in testa con quattro punti sull’Internazionale. Il torneo lo concluse la squadra giovanile che, per quegli ultimi incontri, affrontò i pari età schierati dalle altre squadre. Così, con il quinto scudetto consecutivo cucito sulle maglie, i ragazzi del “Toro” entrarono per sempre nel mito.