Atletica / "Tai" Missoni ci ha lasciato

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Venerdì 10 maggio 2013

Con la sua morte – avvenuta ieri notte nella sua casa/azienda di Sumirago – si chiude per sempre l’epoca bella e romantica dell’atletica. E con essa i valori che la sostenevano. Aveva 92 anni. Gli ultimi mesi del patriarca Ottavio Missoni sono stati segnati dal dolore immenso per la perdita di Vittorio, il maggiore dei suoi tre figli, scomparso mentre volava sulle acque venezuelane. Un sigillo atroce a una vita meravigliosa. Un lungo percorso, il suo, partito dall'atletica per approdare al grande proscenio della moda internazionale. La righe uscite dalle sue matite (“pennarelli e fogli a quadretti, nient'altro, questo è il mio segreto”, amava ripetere) hanno segnato un’epoca e portato nel mondo (fino nei musei) il suo made in Italy. Nato l’11 febbraio del 1921 nella piccola Ragusa – la Dubrovnik croata di oggi – è stato uno dei più precoci talenti dello sport italiano. In possesso di grandi mezzi fisici, con una statura non inferiore a 1.88, aveva lasciato volentieri il nuoto per dedicarsi, con inatteso successo, alla corsa a piedi. Aveva fatto sensazione nel 1937, ad appena 16 anni, superando all’Arena milanese, il nero americano Elroy Robinson, a quel tempo primatista mondiale sulle 880 yarde. Due anni più tardi, sulla stessa pista, in occasione del famoso incontro Italia-Germania, all’esordio in maglia azzurra, aveva concluso al terzo posto alle spalle di Rudolf Harbig e Mario Lanzi segnando con 47”8 la miglior prestazione europea per atleti al di sotto dei 20 anni (anche se allora il tempo si traduceva solo in un dato statistico).

Figlio di un ufficiale di marina, Vittorio, che non s’era mai emozionato per le sue imprese, e di una giovanissima mamma, Teresa, arrivato per secondo dopo il fratello Attilio, aveva trovato l’atletica casualmente, dopo aver provato col nuoto e il canottaggio, come d’obbligo per tutti i ragazzi della frastagliata costa dalmata. Le grandi premesse per un luminoso avvenire vennero, però, cancellate dalla guerra. Fatto prigioniero ad el Alamein nel novembre ‘42, ospite di Sua maestà britannica, aveva trascorso quattro anni in un campo di concentramento egiziano. Rientrato in Italia nel settembre ‘46, comprata a mezzi una macchina per tessitura, aveva avviato in società con Giorgio Oberweger una modesta attività tessile per la fabbricazione di tute sportive un po’ taroccate, commercializzate col marchio “Veniulia”, trasparente contrattura dei nomi delle terre d’origine. In quel dopoguerra difficile, quando arrangiarsi era una necessità quotidiana, aveva anche prestato il suo bel viso ai popolari fotoromanzi, la televisione del tempo: “Tormento”, assieme alla biondissima Irene D’Astrea, il più riuscito. Era il 1947. “Mi offrirono di interpretare la parte del protagonista buono”, ricordava, “e io accettai perché avevo un gran bisogno di soldi per comperarmi un cappotto. Non appena mi pagarono, però, spesi tutto in bevute e in mangiare con gli amici. Tutto quello che riuscii a comperarmi fu un ombrello”.

Provato nel fisico e smarrita la baldanzosa esuberanza d’un tempo, Missoni aveva preferito rinunciare ai 400 optando per gli ostacoli nei quali s’era cimentato con successo già nel ’41, prima di venire arruolato: il 53”3 ottenuto agli “assoluti” di quell’anno gli aveva assegnato il secondo posto nella lista mondiale, alle spalle dello svedese Sixten Larseen. Dopo un intervallo di quasi sette anni, era sceso a 53”1, ma per i Giochi i tecnici contavano su di lui più come frazionista della staffetta del miglio che come ostacolista dei “quattro”. Smentendo però ogni previsione (anche quelle del padre che, benché si trovasse in quei giorni imbarcato come ufficiale su una nave italiana alla fonda in un porto inglese, non era andato a vederlo correre, sentenziando lapidario: “tanto te ghe arriverà ultimo”), il ventisettenne Missoni a Londra riuscì a vincere la batteria e a bruciare, sul filo della semifinale, l’inglese Harry Whittle per quel terzo posto utile per la finale. Nella corsa decisiva, che affrontò in seconda corsia, non si risparmiò, ma – senza poter smentire la profezia paterna – non riuscì ad evitare l’ultimo posto. La pista in terra di Wembley produsse quel giorno tempi di grande valore: il titolo andò all’americano Roy Cochran che in 51”1 precedette il veterano di Ceylon, Duncan White (51”8), e lo svedese Rune Larsson (52”2). L’azzurro, sesto, venne cronometrato in 54”0.

Missoni comunque la sua Olimpiade la vinse, quell'anno, anche se fuori dallo stadio. Fu infatti proprio nella malconcia capitale dell’Impero che incontrò la sedicenne Rosita Jelmini – “singolarmente ricca di cerebro”, Brera docet – sposata a Stresa nella primavera del ’52. Di quell’incontro fatale, ricordava Rosita in una lunga intervista a “Gente”: “Avevo sedici anni e Ottavio ventisette; ma capii subito che era l’uomo della mia vita. Quando tornai in Italia, lo invitai alla festa del mio compleanno e da allora non ci siamo più lasciati”. Assieme a Rosita, che nell’impresa poteva gettare il peso di una modesta fabbrica di tessuti e scialli ricamati, eredità di una sua zia, i Missoni - con una sfilata a Firenze nel 1969 - partirono per un viaggio che avrebbe legato il loro nome ad una delle più celebrate griffe dell’alta moda.

“Tai”, come lo hanno sempre chiamato familiari ed amici (una cerchia nella quale un posto di rilievo spettò, fino alla morte, a Brera: “quale principe della Zolla, ho da tempo insignito Missoni dell’assonante dignità di Conte”), ha vissuto e lavorato per decenni a Sumirago dove sorge la casa-madre dei Missoni, senza dimenticare d’essere stato a lungo sindaco in esilio della “Libera Città di Zara”, titolo a lui tra i più cari. Affidandoci ancora al lirismo breriano, possiamo concludere con un confronto sopra le righe tra i due personaggi Facelli e Missoni, epigoni di due epoche tanto lontane nella memoria di chi oggi segue l’atletica.

Scriveva, dunque, Brera: “A conti fatti, Luigi Facelli ha servito la maglia azzurra tredici anni; il Conte Ottavio sedici. Entrambi derubati dalla guerra, entrambi dalla vita. Luigi era di rozza tempra plebea, e per ciò stesso ammirabile; Ottavio nasceva borghese medio-alto da un capitano da mar di origine furlana e da una nobile di Sebenico. Uno correva digrignando allupato, al punto da stringere il cuore. L’altro disegnava falcate di eleganza così sublime da rasentare il fatuo: il suo dramma di reduce era atroce: tuttavia, riuscì miracolosamente a sdoppiarsi, a vedere il proprio ectoplasma distendere passi di efficace e non frivolo vigore: seguendo quelli tornò vivo e atleta quando ormai il destino pareva averlo umiliato per sempre”. I due ebbero ancora la ventura di incontrarsi un’ultima volta, nella villa dei Missoni a Sumirago, nel maggio 1989 per una serata di ricordi e di celebrazioni che chiudeva – con qualche rimpianto – l’epoca d’oro dell’ostacolismo italiano. Ora i due grandi vecchi – l’uno, soffiatore di vetro e damigiane, l’altro, principe della moda internazionale – si sono riuniti in cielo.

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