I sentieri di Cimbricus / Per una nostra piccola Spoon River

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Giovedì 30 Dicembre 2021

 

        paola-72 


Una sonata di Beethoven, les Adieux, per tutti quelli che ci hanno lasciato e che abbiamo amato. Un ricordo e un omaggio (incompleto) per i tanti lutti che hanno segnato l’anno che si spegne domani.


Giorgio Cimbrico

• 2021, anno fatale per i martellisti: in meno di due mesi, tra il 14 settembre e il 7 novembre, se ne sono andati il primo, il settimo e l’ottavo di tutti i tempi: Yuri Sedykh aveva 66 anni, Igor Nikulin 61, Juri Tamm 64. Sedykh, due volte campione olimpico, è morto da primatista del mondo: il suo record, 86.74, aveva appena tagliato i 35 anni di durata. Tamm era stato due volte bronzo olimpico, nell’80 e nell’88, Nikulin, terzo nel ’92, aveva migliorato il piazzamento del padre, quarto nel ’64.  

Lee Evans, uno dei giganti di Messico ’68, l’abbattitore della barriera dei 44 secondi (quel 43”86 vecchio 53 anni gli assegna ancora il 14° posto All time), era californiano di Madera, aveva 74 anni e un ictus gli è stato fatale. Lee venne dieci minuti dopo il volo di Bob Beamon, alle 15,50 del 18 ottobre 1968, in quella che avrebbe potuto essere una finale monca. Dopo la cacciata di Smith e Carlos dal giardino poco incantato della squadra americana, si era domandato “Che ci faccio qui?” ed era stato proprio Carlos a convincerlo: “Corri, fallo per i fratelli”. E così Lee ebbe a disposizione una gara che era un inno alla “negritude” cantata da Leopold Sedar Senghor, uno dei pochi poeti chiamati a governare un paese e un popolo: Evans, Larry James, Ron Freeman, americani, Amadou Gakou, senegalese, Tagegne Bezabeh etiope, Amos Omolo ugandese. Sei su otto: i bianchi erano il tedesco Martin Jellinghaus e il polacco Andrzej Badenski. L’Africa diventerà il terreno d’azione e il luogo di morte di Lee.  

• Il male che ha assalito il mondo si è preso in pochi giorni una donna e un uomo che avevano unito vita e destino: prima, Nirmal Kaur, già capitana della nazionale di pallavolo; poi, avviato verso i 92 anni, il marito, Milkha Singh, the Flying Sikh, l’atleta simbolo della grande India, il campione che corse uno dei giri di pista più appassionanti nella storia dei Giochi. Oceania a parte, tutti i continenti erano rappresentati all’Olimpico di Roma il 6 settembre 1960: gli americani Otis Davis e Earl Young, i tedeschi Carl Kaufmann (nato a Brooklyn, di professione cantante) e Manfred Kinder, il sudafricano Malcolm Spence e, per l’Asia, Singh che finì quarto in 45”73, un record nazionale che avrebbe tenuto duro per 38 anni e che sarebbe finito al centro di una disputa: nel 1998 Paramjeet Singh, ufficiale di polizia, corse in 45”70 e richiese la “taglia” che Milkha aveva messo sul suo record, 200.000 rupie, 5.000 dollari. “Per me – eccepì il vecchio campione – 45”6 è meglio di 45”70 e poi io l’ho ottenuto su suolo straniero, in un’occasione importante, non in un meeting nazionale”. Il giavellottista Neeraj Chopra, sorprendente campione olimpico, lo ha ricordato paragonandolo a una gemma. Proprio come l’India, gemma della corona di un Impero che non c’è più.  

• Il malore, il ricovero, la resa di chi tentava di prestar soccorso a Paola Pigni, 75 anni, pioniera, rivoluzionaria, iniziatrice, esploratrice delle lunghe e lunghissime distanze quando il pregiudizio confinava le donne in un ristretto cortile. Se oggi corrono dagli 800 alla maratona, a Paola e a quelle come lei le atlete dei nostri giorni devono riconoscenza. Vulcanica è l’aggettivo che ritorna spesso ripercorrendo tratti di un’esistenza affrontata con una decisione che poteva esse letta nello sguardo. Il 2 luglio 1969, all’Arena di Milano, Paola portò il mondiale dei 1500 a 4’12”4: tre mesi dopo, terza agli Europei di Atene. Il momento più alto ai Giochi di Monaco di Baviera ’72, al debutto della distanza: scese tre volte sotto il record italiano sino al 4’02”85 che le diede la medaglia di bronzo, a un decimo (in realtà, due centesimi) dalla tedesca DDR Gunhilde Hoffmeister. Esiste una foto bellissima: due sottili corpi sovrapposti, quasi indistinguibili, sul traguardo. Nel 2016 il suo nome finì su una delle pietre del Cammino della Gloria, ai Foro Italico.

Roma è stata l’alfa e l’omega nella lunga marcia di Vladimir Golubnichy, scomparso a 85 anni. Ai Giochi del ’60 vinse la sua prima medaglia olimpica, agli Europei del ’74, 38.enne, conquistò un titolo che, curiosamente, non aveva mai colto. “Un simbolo, un punto di riferimento, un campione dall’incredibile continuità. Lo incontrai a Milton Keynes nel ‘77: io poco più che un ragazzo, lui il veterano, una figura già storica”: Maurizio Damilano, così come il gemello Giorgio e il fratello maggiore Sandro, non hanno mai nascosto di nutrire per l’ucraino stima e affetto. E proprio Maurizio ha provato a imitarlo: oro olimpico nell’80, titolo mondiale nel ‘91, un abisso di tempo dopo. Golubnichy era di Sumy, nordest dell’Ucraina, città di fondazione cosacca; diventò campione olimpico a Roma con un margine ristretto, nove secondi, sul sorprendente australiano Noel Freeman. Il bis a Messico: sbucò nello stadio in testa, seguito dal connazionale e conterraneo Nikolai Smaga, ma quel punto dal boccaporto fece la sua comparsa anche Josè Pedraza, messicano, salutato dal pubblico con un boato. L’indemoniato Pedraza saltò Smaga e si lanciò sulle orme di Vladimir. A questo punto entrò in scena Giorgio Oberweger che in una delle tante lingue di cui aveva padronanza, lo ammonì: “O ti accontenti o …”. Pedraza finì a un secondo e mezzo da Vladimir.