I sentieri di Cimbricus / Il boscaiolo che pianto' l'albero dello sci italiano

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Martedì 30 Giugno 2020

 

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Cade oggi il centesimo anniversario di Zeno Colò: un toscano di montagna, uomo semplice, taciturno, deciso, un terribile agonista, un pioniere. Riproponiamo per i nostri lettori questo articolo apparso ieri sul Secolo XIX.

 

Giorgio Cimbrico


È il tenente Massimo Gagnoli a convincerli: “Ragazzi, ai tedeschi non voglio arrendermi ma ho idea che tentar di resistere sarebbe un suicidio. Se mi date retta, una soluzione c’è: andiamo in Svizzera”. E così, dopo l’8 settembre 1943, nel clima di generale sfascio, una pattuglia di alpini del Nucleo sci veloci lascia Aosta, si avvia verso il confine, lo passa, viene internata a Visp e dopo qualche tempo, con l’aiuto di un nobile ungherese, il barone Hugo de Rain, raggiunge Murren, Oberland bernese, molto amata da un giovane Ernest Hemingway che la cita in “Addio alle armi” e in “Festa mobile”. Qualche mese dopo gli alpini spadroneggiano nelle gare organizzate alla meglio: Smeterlink è Roberto Lacedelli, Donner (tuono) è Silvio Alverà, Blitz (lampo), il più forte di tutti, è Zeno Colò.

E questa è una delle pagine meno note della vita di Zeno nei giorni del suo centesimo anniversario che cade oggi, 30 giugno: la vita di un uomo semplice, taciturno, deciso, un terribile agonista, un pioniere, un boscaiolo che non tagliò ma piantò l’albero dello sci italiano senza esser nato sull’arco delle Alpi: Zeno pistoiese, Zeno abetonese come Celina Seghi, pioniera anche lei e coetanea, che ai 100 anni è arrivata quattro mesi fa. Zeno se n’è andato nel ’93: cancro al polmone. Era un gran fumatore delle sigarette più umili: le Nazionali.

Per quel volto di giovane che non è mai stato giovane, per le radici regionali, per la condizione sociale, la tentazione è di accostarlo a Gino Bartali, appena più vecchio, toscano di pianura, al massimo di collina. Zeno era un toscano di montagna: boscaioli, carbonieri, fabbricanti di ghiaccio, commercio che dava qualche scudo quando i frigoriferi non esistevano. I primi sci li taglia e li liscia il padre Alfredo: sono uno strumento di lavoro, non di gioco.

Zeno esce fuori dai suoi monti nel ’41, vince i tre i titoli italiani ma ai Mondiali di Cortina va solo come riserva. Sono Mondiali così poco ecumenici (solo i paesi dell’Asse e qualche neutrale) da incorrere, anni dopo, nella cancellazione da parte della FIS. Gli danno il ruolo di apripista in discesa, lo cronometrano e il tempo alla fine sarebbe da podio. Qualcuno sostiene da vittoria.

Nel ’47 la “quarantena” dell’Italia è finita e il Kandahar, il più prestigioso dei trofei, creato da vecchi ufficiali britannici reduci della guerra afghana, si corre a Murren, che lui, il vecchio Blitz, conosce bene. Vince la discesa e svizzeri, francesi e austriaci si domandano da dove sia uscito questo tipo con il volto lungo, con qualche accenno di stempiatura, brusco. È su di giri e il 9 maggio, a Cervinia, spazza via il record del chilometro lanciato di Leo Gamperl: da 136,600 a 152 prima, a 159,292 poi. È a testa nuda, usa un paio di sci di legno della Cambi e adotta una posizione di sua invenzione. Proprio a uovo no, ma quasi. Un innovatore. La perfezionerà Jean Vuarnet, inventore di valanghe francesi e azzurre.

A St-Moritz, esordiente olimpico a quasi 28 anni: cade in libera perché sperimenta un nuovo paio di occhiali a maschera che gli tolgono il senso della velocità e si schianta – e schianta gli sci – perché arriva in un punto difficile troppo veloce. In slalom è 14°. Mastica amaro. Alla prossima non deve sbagliare. La prossima, dopo aver incamerato il Kandahar del ’49, sono i Mondiali di Aspen, Colorado. Trasferta lunga e costosa: la squadra azzurra è all’osso, cinque atleti. Gli abetonesi fanno incetta: Celina Seghi bronzo in slalom, Zeno secondo in slalom dietro lo svizzero Schneider per uno sbandamento quando mancano poche porte, campione in gigante, per la prima volta nel programma, campione in libera, un secondo abbondante su uno dei suoi rivali storici, il francese James Couttet. “Ci aspettavamo lo stile spericolato del tagliaboschi e invece Colò ha sciato con grazia”, nota il New York Times. Scrive a casa: “Ho conosciuto Gary Cooper, mi hanno fatto centinaia di foto, mi vedrete nel cinegiornale. Ho festeggiato con una bevuta e spero che anche voi l’abbiate fatto”. Al ritorno, dopo un tour nelle Montagne Rocciose canadesi, i compaesani gli fanno trovare una 500.

Va ai Giochi di Oslo da veterano: quarto in slalom, quarto in gigante. Il giorno è il 16 febbraio 1952. “La pista era pericolosa: non ne ho tenuto conto”. Schneider e Pravda si arrendono davanti al primo italiano campione olimpico in una disciplina invernale.

E qui inizia la parte più triste, segnata da ipocrisie costate care non solo a Zeno: sufficiente pensare e Pietri, a Thorpe, a Nurmi, a Schranz. Prende 3 milioni perché la Nordica e la Colmar stampano il suo nome su scarponi e giacche a vento. La FISI lo squalifica: è un professionista. Ai Mondiali di Åre, Svezia, va perché lo invitano gli organizzatori. Fa da apripista e, come tredici anni prima, quel tempo sarebbe buono per una medaglia.

L’obiettivo è chiudere a Cortina, prima Olimpiade in Italia. È un “vecio” ma fa ancora paura a tutti. Con zelo eccessivo, la FISI, dopo aver mostrato clemenza, lo blocca ancora. C’è in ballo l’assegnazione dei Giochi del 1960 e lo sport italiano deve apparire irreprensibile, virginale. Gli concedono la parte del tedoforo che porta la fiaccola giù per la pista delle Tofane, dove trionferà Toni Sailer, così glamour, così diverso da lui.

All’Abetone disegna piste, insegna a sciare a generazioni di ragazzini e di sciatori di città. Ricco non diventa. È malato e in miseria, dicono quando gli viene concessa la legge Bacchelli, ora Onesti. “Malato sì, in miseria no. Diciamo che non sono in floride condizioni”, prova a stirare il volto in uno dei rari e ultimi sorrisi