Giovedì 26 Marzo 2020
Giorgio Cimbrico
Sapete cosa ha detto Thomas Bach? Che il calendario del 2021 è piuttosto complicato, e così ha dato il compito a una immancabile task force di esaminare la situazione e, di concerto con i giapponesi, trovare una soluzione, fermo restando che Tokyo 2020+1 deve concludersi entro l’estate. Qualcuno, anche qui sui nostri disastrati lidi, ha azzardato che potrebbero essere varati i primi Cherry Blossom Games, i Giochi dei fiori di ciliegio: aprile, oltre ad essere il mese più crudele (Ts Eliot, “La terra desolata”, titolo quanto mai adatto), coincide con i giorni della nevicata più lieve e poetica: quei petali sono finiti nelle brevi liriche note come haiku e nei disegni su carta di Hiroshige, Hokusai, Utamaro che, come paesaggisti e studiosi delle società del loro tempo, potremmo avvicinare ai nostri Canaletto, Bellotto e Guardi.
E’ una festa gentile, non chiassosa. Sono stato così fortunato da averla vissuta su una piccola isola nella baia di Hiroshima, Mihajima. Silenzio, monaci intenti a tracciare ideogrammi su strisce di stoffa, scalpicciar di cervi. Persino le famiglie di macachi si comportavano con educazione.
A me non è mai piaciuto sentire e leggere “confidiamo, ci auguriamo”. Ho sempre creduto in pochissime cose e ora sono ancora meno, e non mi fido di quelli che usano il condizionale. E così, senza potere come sono, dico e ordino che non sconvolgano questa bella, antica e dolce tradizione con la loro fiera finanziaria. Negli ultimi 75 anni il Giappone è stato già passato abbastanza al tritacarne.
Che i Giochi li facciano a maggio o a giugno, quando ci sarà un clima meno fetente di quel che era stato previsto per l’estate dei cinque cerchi vuoti. Con lo scopo di non interferire con i Mondiali di nuoto di Fukuoka o con quelli di atletica di Eugene (vedi alla voce Nike) che in ogni caso la Iaaf-WA si è detta disponibile a ritardare o far scivolare nel 2022, rendendo più agevole la soluzione del puzzle in cui da tempo è stato trasformato lo sport virgolette sport.
Anche io in questi giorni sono stato alle prese con un puzzle e credo di averne completato una parte. Nei giorni di massima tensione, di incertezze, di decisioni che venivano rimandate, di parole vuote, in scena è entrata una vecchia Santa Alleanza che il tempo e le tante campagne non hanno sciolto né reso più debole: la potenza storica degli anglosassoni, fondatori e codificatori di molto sport moderno, ha impresso la svolta con le prese di posizione dei comitati olimpici di Canada e Australia (“a Tokyo non manderemo nessun atleta”) sorretti da quello americano dopo forti sollecitazioni di nuoto e atletica, e con la lettera di Sebastian Coe che rivolgeva al vertice del CIO la ferma preghiera di salvar innanzitutto l’integrità dell’atletica, delle sue donne e dei suoi uomini, dei suoi valori, Coe non l’ha fatto pesare, non l’ha scritto ma lo ha fatto capire: l’atletica “è” l’Olimpiade.
Nessuno in questo mondo è Gandhi o il dottor Schweitzer e ogni movimento, ogni parola, ogni inflessione debbono essere interpretati in chiave di scenari che verranno o che si stanno formando. Dick Pound, canadese, gran nemico di Bach, sa che ormai, non lontano dagli 80 anni, la chance di salire sul “soglio” di Losanna è svanita. E così la fisionomia di colui che potrebbe succedere all’ex-fiorettista tedesco può assumere, sempre più nitidamente, i contorni del volto di Lord Coe, 64 anni da compiere il 29 settembre, che, malgrado due medaglie d’oro nei 1500 e un’Olimpiade voluta, organizzata e guidata (oltre a una lista di onori lunga quanto quella del Duca di Wellington), non è membro del CIO. Né effettivo né onorario. Un’irresistibile ascesa è vicina?
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