I sentieri di Cimbricus / Quando la leggenda si chiamava Davis

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Sabato 23 Novembre 2019

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La grande bruttezza ovvera la versione 2.0 della ex Coppa Davis. Nessuno la voleva, a nessuno è piaciuta. Ma ormai esiste e rimarrà. Segno ulteriore (estremo?) di come i mercanti globali hanno ridotto oggi lo sport che fu e che abbiamo amato.
 
 
Giorgio Cimbrico

Interminabili viaggi – almeno cinque scali – per le trasferte australiane e natalizie di Nick e di Orlando, per le loro imprese impossibili che chi ha superato abbondantemente i 60 ricorda con un languore che non è mai monotono. Parlare oggi di Davis è trasformarsi in Karen Blixen che piange sulla tomba dell’amato Dennis Finch Hutton: lo strazio del dolore verrà meno quando sapremo – ma non lo dubitavamo – che sul sepolcro, come su quello sperduto tra l’erba alta delle colline Ngong, vanno a sonnecchiare leoni. Non lenoni.


E così a noi non rimane che custodire quegli amabili resti, ricordare quei confronti che potevano anche essere feroci, sgherri (nel cast, il pubblico di Bucarest interpreta la parte del cattivo), quel mondo in bianco e nero, quel vocabolario finito nel rogo del profitto: Australasia, finale Interzone, Rhodesia, Challenge round. Ora è il tempo della Coppa Piqué, della Coppa Shakira, della Coppa Kosmos, della cornucopia da cui verrà versato più denaro di quanto se ne possa contare. Di una cosa sono certo: fossi un erede della famiglia Davis, intenterei un causa non per ricavare soldi – sarebbe sordido – ma per cancellare quel nome dalla bolgia regolamentare in cui è stata immersa una delle tante chanson de geste finite nel tritacarne montato nel tempio dai mercanti globali.

Quando ci si trova di fronte a nobilissime anticaglie, immancabile parte la sfida: quale è la dotata di più lontana fondazione, di gloriosa vecchiezza record? I velisti sostengono sia la Coppa delle Cento Ghinee, ribattezzata in gran fretta Coppa America dopo la vittoria dei “coloniali” sui britannici nelle acque del Solent, di fronte a Cowes: era il 1851 e vi era una certa tensione tra Turchia e Russia, di lì a poco sfociata nella guerra di Crimea. I rugbysti pensano che una vera forma di confronto tra squadre nazionali sia stata codificata con l’Home Championship (successivamente 5 Nazioni) che prende il via nel 1883 quando l’Irlanda era un colonia, al pari dell’India. Peggio trattata, però.

A Dwight F. Davis e agli altri giocatori di Harvard l’idea di sfidare la Gran Bretagna venne nel 1899 e il primo capitolo venne scritto il 4 aprile 1900 sui campi non tirati a lucido di Longwood, non lontano da Boston dove, su disegno dello stesso Davis, era stata fusa l’insalatiera dagli argentieri Shreve, Crump e Low, degni di entrare nella storia dello sport come il collega londinese Gerard che diede alla luce la brocca premio per chi detta legge nel marino match race. Qualche interrogativo sul termine “insalatiera”. Non è forse meglio classificarla come il “cratere” da cui veniva attinto il punch? Per gli appassionati, consiglio di rivedere una scena del “Massacro di Fort Apache”. John Wayne e Pedro Armendariz pescano da un recipiente assai simile al trofeo.

La Davis aveva regole antiche, certe, severe. Per tre quarti di secolo è stata un giardino esclusivo frequentato da Stati Uniti, Regno Unito (che dall’albo d’oro è però assente dal ’36, facendo il paio con una simile astinenza wimbledoniana, interrotta dallo scozzese Andy Murray), Francia (memorabile la serie di sei successi consecutivi conquistati dai Moschettieri tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta) e Australia che, alle origini, conquistò sei insalatiere anche sotto il nome di Australasia, con l’inclusione di giocatori neozelandesi: il più ricordato e amato di quegli anni è Tony Wilding, uno degli antichi numi di Wimbledon e caduto in piena Grande Guerra, capitano dei Royal Marines, nella zona del Pas de Calais.

Sommando le vittorie della squadra mista a quelle ottenute dagli aussies, i tennisti del mondo di laggiù minacciano la supremazia americana con 28 successi contro i 31 degli inventori, ma ai “canguri” rimane la serie positiva più lunga: 15 trofei conquistati nelle diciotto edizioni che vanno dal 1950 al 1967, l’era più rigogliosa. Sono proprio di quel periodo i primi approdi in finale dell’Italia, due avventure (nel ’60 sull’erba dello White City Stadium di Sydney, un anno dopo, sempre sul verde, al Kooyong Park di Melbourne) chiuse sul 4-1 e sul 5-0. Da una parte Nicola Pietrangeli (164 incontri in Davis, record mondiale di fedeltà, diciotto di vantaggio sullo zingaresco Ilie Nastase: tanto per dare un’unità di misura, Federer ha giocato 70 match) e quel buonanima di Orlando Sirola, dall’altra Rod Laver, Neale Fraser, Roy Emerson.

Gli anni Settanta diedero inizio a un progressivo allargamento dell’area delle nazioni vincenti, un fenomeno a cui non furono estranee situazioni politiche e rivolgimenti violenti: nel ’73 il trofeo prese la via del Sudafrica perché l’altra finalista, l’India, non accettò di incontrare il paese che praticava l’apartheid e nel ’76, dopo una serie di rinunce nei turni eliminatori e di roventi polemiche, l’Italia affrontò (e sconfisse) il Cile a Santiago nel paese violentato dal golpe di Pinochet. Da allora, l’irruzione prima della Svezia, poi di altre nuove potenze, ha dato un volto nuovo al vecchio albo che può presentare, nei suoi memorabilia, anche il servizio più veloce della storia, una palla scagliata da Andy Roddick (contro Aleksadr Voltchkov) a 249,9 orari.

Ora tutto è cambiato e una terribile bruttezza è nata.