Sabato 12 Ottobre 2019
Solo un'operazione commerciale? Di certo è difficile dare credito "sportivo" all'impresa targata Nike di Eliud Kipchoge - annunciata al rullar dei tamburi come l'evento dell'anno - che resta incastonata nel regno del "costruito" e del posticcio degli investimenti economici. Noi crediamo che l'atletica è, e deve restare, ben altro.
Carlo Santi
Eliud Kipchoge ha tirato giù un muro che sembrava impossibile ma che non troverà mai un posto nell’albo dei record ufficiali. A Vienna, su un circuito intorno al Prater, il trentaquattrenne keniano ha corso la maratona in 1h59’40”. Nessun pedone era mai riuscito in una simile impresa, nessuno era mai riuscito a correre i 42 chilometri e 195 metri in meno di 2 ore.
Quella di Vienna non era una gara: era un tentativo, un esperimento in campo sportivo ben congegnato. Un atleta vero, un campione straordinario - Kipchoge lo scorso anno sulle rapide strade di Berlino ha fissato il mondiale vero della maratona con 2h01’39” - e una collaborazione importante con Nike è il colosso chimico inglese Ineos.
Corsa bellissima quella del campione Nandi, certo, ma crediamo sia uno stato uno spettacolo realizzato quesì esclusivamente per dimostrare la propria bravura. Tutto perfetto, le 36 lepri, il ritmo, i ristori volanti, il raggio laser a terra per dettare il passo e auto frangi vento. Un mondo quasi irreale come il momento del via, scelto nell’attimo climatico migliore. Irreale, l’esatto contrario di quello che è lo sport dove devi misurarti con te stesso, le tue condizioni, con gli avversari, con il mondo esterno che vuole dire caldo, freddo, umidità, vento. Si dirà: ma chi ha corso? Certo, un uomo, ma trasformato quasi in una macchina, in un robot.
Per questo crediamo che l’esempio di Kipchoge non sia un grande vantaggio, un esempio per lo sport. È, questo innegabile, la dimostrazione che con determinazione e volontà si possono raggiungere gli obiettivi. Ma lo sport deve avere altre variabili oltre al puro calcolo. L’impresa ha il marchio della Nike che spera di aver fatto attraverso Kipchoge un tuffo nella verginità perduta, quella lasciata con il caso che ha coinvolto Alberto Salazar e il suo - e loro - centro di allenamento appena chiuso. E ha, anche, il marchio della Ineos, colosso della chimica che da maggio è entrato nel mondo del ciclismo su strada al posto della Sky.
Sicuramente quella di Kipchoge, che nel 2017 a Monza durante un’altra corsa come quella viennese, la Breaking2, ottenne 2h00’25”, è impresa super ma destinata a rimane circoscritta al rango degli esperimenti, al lavoro da laboratorio. Lo hanno aiutato 36 lepri, dai fratelli Ingebrigteen, Henrik, Jakob e Filip, Bernard Lagat, Barega. Lo hanno trascinato a un ritmo di 2’50” al chilometro (tra 2’48” e 2’52”) e portato alla mezza in 59’35”.
Tutto bello, tutto perfetto, quindi, ma tutto così tristemente lontano dalla realtà. Una corsa da utilizzare per capire i limiti umani e studiare l’allenamento, ma non da prendere ad esempio dai running che ogni giorno si cimentano sulle strade in ogni angolo del mondo. Armati solo delle passione.
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