I sentieri di Cimbricus / "Mi attendo che tutti facciano il loro dovere".

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Mercoledì 14 Agosto 2019


bydgoszcz-19


"L’atletica europea non è morta. Si specializza, ma difficilmente persegue quella dimensione di completezza che era il vanto di antiche potenze scomparse o disintegrate dal tempo, dalla storia."


Giorgio Cimbrico

L’Europa è fiacca, mancava un sacco di gente, bisognerebbe tener conto della Russia, rondini che non fanno primavera, soprattutto ad agosto: se non le ho ascoltate, le ho immaginate, queste riflessioni, mentre scorrevano i titoli di coda sul campionato europeo per nazioni che tra due anni tornerà al format logico e diretto della Coppa Europa: le minuscole e le maiuscole non sono lapsus calami.

Questo dibattito, reale o solidamente immaginario, mi ha fatto venire in mente un pezzo del povero Renato Morino dopo l’8.90 di Bob Beamon: c’era – raccontava - chi diceva che il vento fosse a favore anche più di quel che dicesse il verbale di gara, che la novità del tartan avesse dato un forte mano, che l’altitudine messicana avesse fatto il resto, così come l’aria elettrica e leggera che precedette il temporale appeso all’orizzonte. E così, scriveva Morino, quel salto diventava sempre più corto sino a quando ci rendemmo conto di quel che avevamo visto.

Ora, nel caso di Bydgoszcz, le proporzioni, lo so bene, sono ridotte ma a me è sembrato che Antonio La Torre, senza lasciarci le penne e finire in un barile di rhum, abbia vissuto la sua Trafalgar. Parafrsndo Nelson, “mi attendo che tutti facciano il loro dovere”. Diciamo che quasi tutti si sono attenuti all’incoraggiamento, all’auspicio. Che poi il CT avesse evocato la salvezza, può far parte di un necessario e comprensibile repertorio sospeso tra la prudenza e la scaramanzia. Ma a questo punto, non rimane che scendere nei dettagli.

Qualcuno ha detto: la Gran Bretagna ha mandato una squadra B. Mancavano Hughes, Prescod (infortunato), Francis, Pozzi, Butchart, Asher Smith, Muir. McColgan, Johnson-Thompson che avrebbero dato un altro senso alla classifica, non si discute. Ma non si discute neppure che il paese non esprima più la forza d’urto di un tempo, anche recente, tipo il supersabato di sette anni fa, ai Giochi di Londra.

Di determinante la Germania non ha lasciato a casa nessuno (Storl e Harting II non avrebbero cambiato niente, le velociste forse qualcosa) perché non sta vivendo un momento di floridezza e marcia verso i Mondiali confidando in un ritorno dei giavellottisti su fettucce lontane e sulla conferma della condizione della Mihambo. Non molto ma è tutto.

A parte Anita Wlodarczyk, operata di fresco a un ginocchio, la Polonia ha schierato tutte le sue gwiazdek (stelle) subodorando che l’occasione era buona. Sentimentalmente la vittoria mi ha fatto piacere: difficile scovare un paese che, vivendo lunghe e drammatiche parentesi storiche, abbia dato di più all’atletica, intesa in tutte le sue componenti. Se ne avete voglia, consultate albi d’oro e progressioni dei record del mondo.

Sulla fiacchezza dell’Europa potrebbe esser aperto un lungo dibattito. Sono abbastanza vecchio per ricordare che il Cross delle Nazioni era una faccenda tra britannici, francesi, belgi, qualcuno dell’est e qualche indomito italiano tipo Franco Fava o Paola Pigni, che l’Europeo era l’appuntamento più importante e atteso dopo l’Olimpiade. Di quel tempo ormai si parla più per le ombre che per le luci. Le cose, poi, sono cambiate e non sto qui ad elencarle: della caduta dei muri e dei regimi e della globalizzazione tutti ne sappiamo a sufficienza.

L’atletica europea non è morta. Vive sempre più spesso in isole più o meno grandi, in arcipelaghi, si specializza, difficilmente persegue quella dimensione di completezza che era il vanto di antiche potenze scomparse o disintegrate dal tempo, dalla storia. Con tutti i limiti, con tutte le assenze del caso (anche noi ne avevamo un paio, piuttosto importanti), è oggi quel che si è visto nello stadio intitolato a Zdzislaw Krzyszkowiak. Chiamatela pure fiacca, senza etichettarla palio delle contrade morte. Perché non è così.