I sentieri di Cimbricus / Ne bastano 10 per reclutarne 1000

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Venerdì 3 Maggio 2019

 

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“Il calcio è un gorgo e un groviglio di complicità, di silenzi, di omertà, è un ticchettio di violenza: quando esplode, tutti si meravigliano e minimizzano e corrono all’immagine consueta delle poche mele marce su un albero rigoglioso”.

Giorgio Cimbrico

Domande. Perché il calcio non combatte il razzismo e l’odio? Perché gli arbitri non applicano il regolamento e interrompono le partite? Hanno paura? O pensano che sia più grave dare o non dare un rigore? Tra il far e il Var può esserci un oceano di esitazioni, di vigliaccheria. Quelli che insultano i neri, gli ebrei, i diversi li conosciamo, sappiamo chi sono. Ne bastano pochi per scatenarne molti. Nella primavera del 1990 andai a Scotland Yard per ascoltare dai responsabili il programma che avevano preparato per Italia 90.

La cosa che mi colpi di più non furono le misure che avevano preso, che stavano prendendo, ma lo studio che stava alle spalle: “Ne bastano dieci per mobilitarne mille”, disse un vecchio commissario che faceva parte della squadra e aveva passato gli ultimi mesi a studiare volti e comportamenti: trent’anni fa i mezzi non erano quelli di oggi, le telecamere non sorvegliavano ogni angolo del mondo e della nostra vita, gli aeroporti non erano campi trincerati. Si andava avanti a palmi, si indagava porta a porta, pub a pub. La sociologia può essere una scienza pratica.

A parte qualche sporadico rigurgito tribale, gli hooligans sono stati sconfitti, emarginati dalla politica degli alti prezzi praticata dalla Premiership (da divertimento popolare il calcio è diventato intrattenimento per la middle e upper class) e sostituiti, nel resto della vecchia e della nuova Europa, da movimenti nichilisti, xenofobi, neonazisti, antisemiti, su una carta geografica che parte dai tifosi della banlieue parigina per estendersi a gruppi polacchi, russi o della galassia della ex-Jugoslavia.

I giocatori neri d’Inghilterra, perseguitati dai buu dei montenegrini, sono le vittime più recenti di un fenomeno che il calcio non riesce a fermare. Forse perché non vuole, forse – ed è più realistico – perché è difficile fermare il serpente dopo che sono state covate le sue uova, forse perché la storia è una spietata maestra che si ripropone, magari saltando una generazione, ma tornando, sinistra.

Qui da noi il tifo estremista – ultra, lo chiamano loro, con la pretesa di canoni filosofici, esistenziali – ha fatto comodo a molti club: ha contribuito a creare consenso in occasione di irresistibili scalate, è servito a creare crisi utili al club, ha avuto quel che oggi si chiamano benefit e continua ad averne, anche quando è proibito dalla legge sportiva e da quella penale. Il calcio è un gorgo e un groviglio di complicità, di silenzi, di omertà, è un ticchettio di violenza: quando esplode, tutti si meravigliano e minimizzano e corrono all’immagine consueta delle poche mele marce su un albero rigoglioso, ricco di magnifici frutti.  Ed è in quel momento che torna in scena il vecchio commissario nel suo anonimo ufficio nell’anonimo palazzo sul Tamigi: “Ne bastano dieci per mobilitarne, per reclutarne mille”.

E così, in questo bollettino quotidiano di violenza, di intolleranza, di razzismo, di indifferenza, di regole aggirate, di esecrazioni verbali così facili, così inutili, desta un certo piacere che in semifinale di Champions si ritrovino, una contro l’altra, Ajax e Tottenham, le due squadre che sventolano la bandiera con la Stella di David. Le squadre degli ebrei perché nate e cresciute nei quartieri ebraici di Amsterdam e Londra, sostenute da tifosi che sono ebrei solo in minoranza ma che non hanno mai dimenticato le radici. Mazel tov, buona fortuna all’una e all’altra