Piste&Pedane / A colloquio con l'uomo che crede (solo) nel lavoro

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Mercoledì 17 Aprile 2019

 

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Il futuro del nostro movimento atletico è affidato ad Antonio La Torre, l'allenatore filosofo che scommette nel lavoro di squadra e che teorizza la necessità di tornare a parlare come "noi" e non più come "io". 

 

Daniele Perboni

 

Se Pietro da Morrone, al secolo Celestino V, colui che fece per viltade il gran rifiuto, fu messo da Dante fra gli ignavi. Oggidì in quale antro dovremmo collocare Antonio La Torre che ha rifiutato il posto da Direttore Tecnico quattro volte? A sua discolpa potremmo dire che, grazie a quelle rinunce, quattro tecnici hanno trovato lavoro. Ora, non abbiamo la spudoratezza di assimilarci al sommo poeta e neppure di accomunare il D.T. a quel Papa abruzzese del 1294, ma alcune domande impertinenti le abbiamo volute ugualmente porre.

Professor Antonio La Torre, quando e perché ha deciso di mettersi dall’altra parte della barricata, cioè allenare piuttosto che essere allenato?

«Nel 1979, esattamente 40 anni fa, grazie al professor Roberto Vanzillotta che non smetterò mai di ringraziare. Ero un atleta molto scarso ma con molta curiosità verso i diversi metodi dell’allenamento. Mi piace ricordare come Vanzillotta abbia allenato grandi campioni dell’atletica, fra cui Stefano Malinverni (bronzo nella 4x400 ai Giochi di Mosca 1980) e Alessandra Fossati (nell’alto, oro alle Gymnasiadi del 1978 e 1979, seconda agli Europei juniores 1981, 1.90i di personale)».

All’interno della FIDAL ha svolto la sua carriera di tecnico attraversando diversi governi federali, senza mai subire ripercussioni. Qualcuno sostiene che incarna perfettamente il prototipo del “turacciolo”. Cioè colui che, nonostante tutto, resta sempre a galla.

«Il sughero è un materiale meraviglioso ma io sono fatto, come tutti, di carne e ossa. A parte l’umorismo, per la mia “carriera” di tecnico parlano i risultati conseguiti attraverso gli atleti che ho allenato. Quello è il mio “curriculum”».

Fra i tanti, ci piace ricordare Alessandro Gandellini e Ivano Brugnetti (campione mondiale della 50 km a Siviglia 1999, campione olimpico ad Atene 2004 sulla 20 km) entrambi marciatori.

 

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«La mia prima Olimpiade, da tecnico, l’ho fatta nel 1984 con Raffaello Ducceschi, quinto. Tutte le persone all’interno della FIDAL sanno che posso vantare un record: aver detto quattro volte no alle richieste di ricoprire il ruolo di Direttore Tecnico. Per la cronaca, dal 2008 al 2016 non ho avuto nessun incarico direttamente nel settore tecnico. Il primo l’ho ricoperto nel 1991. Dal 2000, invece, sono stato inquadrato ufficialmente nel settore tecnico della marcia. Caposettore Vittorio Visini, con il quale ho avuto uno splendido rapporto, così come l’ho avuto con Sandro Damilano e Pino Dordoni. Dal 2008 al 2012 sono stato impegnato nel supervisionare la preparazione olimpica, CONI, dunque parliamo di tutti gli sport, sia quelli dei Giochi estivi sia quelli delle Olimpiadi invernali. Nonostante questi impegni cercavo di dare “una mano” all’atletica, grazie al buon rapporto personale che avevo con Francesco Uguagliati (D.T. dal 2009 al 2012). Per finire, dal 2012 al 2016, non ho ricoperto nessun incarico specifico in Federazione. Capirete bene che tutte queste dicerie sono le classiche leggende metropolitane. A fine 2016, su richiesta di Elio Locatelli, sono tornato a collaborare con il settore tecnico per le discipline di endurance. Forse la confusione nasce dal fatto che mi sono ininterrottamente occupato di formazione dei tecnici. Nella teoria e nella pratica. Il primo articolo, che rivendico con affetto, l’ho scritto con Enrico Arcelli su Atletica Studi nel 1994. Per la Scuola dello Sport sono referente per la metodologia dell’allenamento. Chiunque conosca in profondità la storia della FIDAL sa che non ho mai chiesto un posto. Credo tutto faccia parte di quei valori che Vanzillotta ha saputo trasmettermi».

Perché, allora, questa volta ha ceduto?

«Semplicemente per spirito di servizio. Ho detto di sì nel momento in cui il movimento si trova nelle peggiori condizioni, avendo davanti poco più di 20 mesi, ribadendo mille volte che occorre tornare a parlare di noi e non io, perché ho attorno una squadra, Tonino Andreozzi e Roberto Pericoli in primis, con i quali collaboro splendidamente».

Parte del mondo dell’atletica sostiene che, nonostante i suoi ripetuti proclami di indipendenza, per le scelte tecniche continua a “dipendere” da un’altra figura più in alto e che non si fatica a riconoscere nella persona del presidente Giomi.

«Una delle poche condizioni che ho posto nell’accettare l’incarico, era quella di “fare” il Direttore Tecnico, facendomi carico, in prima persona di tutte le responsabilità. Scelte giuste o sbagliate che siano. Proviamo a fare un ragionamento logico: perché mai avrei detto di no quattro volte per poi accettare di essere scavalcato nel mio ruolo? Ripeto: questo ruolo non l’ho cercato, sono stato cercato. Vi faccio un piccolo esempio: all’ultimo raduno delle staffette, in previsione di Yokohama, il presidente è venuto, ha salutato ed è tornato a Roma. Poi, è chiaro che ne capisce di atletica e con lui ci parlo. Quando sono in Federazione parliamo di tutto, confrontandoci. Però alla fine chi sceglie sono io».

Prima di intraprendere questa strada era impiegato in una grande azienda, se non sbagliamo come disegnatore meccanico. Quindi ha vissuto da vicino le varie lotte sindacali, le trasformazioni nel mondo del lavoro e gli anni bui del terrorismo.

«Quello è stato un periodo fondamentale della mia vita. Sono entrato in fabbrica nel 1974, l’anno dell’attentato all’Italicus [fu un attentato terroristico, attribuito ad ambienti dell’estrema destra, con 12 morti e 48 feriti, compiuto nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 sul treno Italicus, mentre questo transitava presso San Benedetto Val di Sambro. NdA]. Quindi ho attraversato tutta la stagione degli anni di piombo. Tifo e ho sempre tifato per la democrazia e dato che i terroristi, sia di destra che di sinistra, non li ho mai considerati democratici ero contro di loro. Direttamente e indirettamente. Nonostante tutto, però, sono felice di averli vissuti quegli anni. Mi hanno insegnato tantissimo. Sia chiaro, non ne ho nostalgia. In fabbrica con gli operai stavo bene, c’era tanta umanità. Con loro ho vissuto in prima fila tutte le lotte sindacali dell’epoca. Ero un delegato sindacale e anche in quel frangente mi sono sempre rifiutato di fare carriera. Ho sempre voluto restare in fabbrica e continuare il mio lavoro di sindacalista di base. Non mi sono fatto mancare nulla, compreso uno “scazzo” con Fausto Bertinotti. Avevo 21 anni. Poi il mondo è cambiato ...».

Alla luce di quello che ci ha raccontato, pensiamo non la spaventino le varie problematiche che ha affrontato e dovrà affrontare come Direttore Tecnico. Per non parlare della “gestione” dei vari “clan” che ruotano attorno agli atleti in odore di nazionale.

«Per me è una esagerazione parlare di clan. Mi piace, al contrario, parlare con le persone vis-à-vis. Possiamo anche non essere d’accordo e accetto che mi si dica quello che pensano gli altri. La schiettezza aiuta tutti. Poi, alla fine, scelgo io. Vedi il settore lanci. Nel mio incarico cerco di portare “un metodo”: quello del ricercatore che si fa delle domande, avanza delle ipotesi per risolvere i problemi e prova. Poi, accidenti, non tutte le ricerche vanno a buon fine. Insomma: mi piace mettere in campo dei ragionamenti e non porre diktat. Anche agli altri tecnici chiedo argomenti e metodo, credo sia la strada che possa far crescere tutti”.

Si mormora che non arriverà a fine mandato e che non lavorando H24 al suo incarico, resta pur sempre un D.T. a mezzo servizio.

«Altra leggenda metropolitana. È tutto pubblico. Ogni mese compilo una specie di agenda sulla quale riporto ciò che faccio giorno per giorno. A Roma ci sono tre giorni a settimana. Se serve, la mia presenza aumenta. Negli altri giorni giro l’Italia a seguire direttamente il lavoro che i tecnici svolgono sul campo. Faccio un esempio: se a Bergamo festeggiano la società io ci vado, ma è per parlare e vedere Marta [Zenoni. NdA]. Ho una grande fortuna. Mi diverto. Non arriverò a fine mandato? Qualcuno ipotizzava che non sarei arrivato neppure a “mangiare il panettone”. Alla colomba quasi ci siamo ...».

Diversi tecnici si lamentano che negli ultimi anni i più giovani allenatori dedichino troppo tempo alla tecnica di corsa trascurando, invece, il classico lavoro di base, cioè correre, correre, correre, ... Insomma, si allenano poco.

«La domanda andrebbe formulata diversamente: quali sono i motivi centrali e fondamentali dell’allenamento? Non voglio fare il Catone, lavoro duramente nella formazione e nei vari convegni degli ultimi tempi stiamo cercando di riportare al centro dell’allenamento i fattori fondamentali e la tecnica di corsa è uno di questi. Così come la tecnica di salto o di lancio sono uno dei fattori fondamentali per la riuscita della prestazione. In questo lavoro occorre tanta, tantissima pazienza e, soprattutto, stare tanto sul campo. Allenatori e atleti e curare tutti gli aspetti».

Attorno al “campione”, oltre al classico allenatore, ruotano diversi specialisti: psicologo, dietologo, motivatore, analista delle immagini, ecc. ... In percentuale, quali di questi professionisti crede abbia maggiore influenza sulla riuscita della prestazione?

«Per la performance di alto livello sono figure che hanno una grande influenza. L’importante è che il regista resti sempre l’allenatore. Avete presente il film di Fellini “Prova d’orchestra”? Ecco, quella è l’immagine che chiarisce tutto il ragionamento».

Recentemente è stato uno dei relatori di un convegno dove si è discusso sulla problematica del “Talento”, come scoprirlo, sostenerlo, e non perderlo per strada. Ritiene prioritario un impegno federale su questi punti e quali strade occorre seguire per “sfruttare” al massimo il reclutamento che avviene nelle fasce giovanili?

«La mia risposta è: assolutamente sì. Spero intensamente sia uno dei temi caratterizzanti la discussione al centro dei programmi di chi si candiderà nei ruoli dirigenziali. Mi auguro vengano prima i programmi e dopo gli organigrammi. Lo ritengo un tema cruciale».

Per finire, come giudica le prestazioni di Nadia Battocletti e Angela Mattevi ai recenti Mondiali di cross?

«In maniera estremamente positiva. Nadia ha provato con coraggio e determinazione a fare una gara di testa ed è questa la strada per maturare e arrivare a far parte dell’élite mondiale, sia sul piano mentale che tecnico. Chi pensa sia facile competere su un terreno abituale per i corridori africani, valuti la prestazione di Jakob Ingebrigtsen. Come la possiamo giudicare? Un fallimento perché è arrivato “solo” dodicesimo e non primo? Quindi Nadia è stata non solo la prima europea ma ha avuto la forza di stare con il “meglio” del mondo. Angela ha confermato di saper condurre una gara intelligente e in progressione. Brave, bravissime tutte e due».