I sentieri di Cimbricus / "Storia di un cavaliere tragico"

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Martedì 26 Marzo 2019

 

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Un omaggio scaturito dal cuore per i cento anni dalla nascita di Fausto Coppi [1919-1960]. La sua morte casuale, stupida, banale, straziò quanto la tragedia che nemmeno undici anni prima aveva spazzato il Grande Torino.

 

Giorgio Cimbrico

Coppi, cappotto dagli ampi risvolti e martingala, aveva quel suo sorriso sincero quando con una carezza scompigliò i capelli del bambino che lo fissava dalle parti di via Luccoli. Glielo aveva indicato il padre, bartaliano: “Guarda, c’è Coppi”. Il padre gli aveva stretto la mano e, dopo, aveva confessato che, volate a parte per via dell’animo sgherro di Gino il pio, Fausto era meglio dappertutto, in salita, a cronometro, quando si trattava di fare passo rotondo, su pista anche, perché aveva gambe lunghe e aveva ampia quella che veniva definita la”cassetta”, il torace carenato, da airone, e la vasta capacità polmonare. Non era ancora il tempo di raffinati studi fisiologici, si andava a palmi, a occhio, per intuizioni (il cieco Cavanna, tastando, capì tutto), sostenute da successi e da cadute: era frequente vederlo ingessato, con gli occhi socchiusi dal dolore. Ossa sottili, da uccello nobile: gli avvoltoi sono più robusti.

Molto di quel che era necessario sapere su Coppi era contenuto in un volume che rilegava rotocalchi anni Cinquanta in bianco e nero, sfogliato e risfogliato quando le giornate di agosto erano segnate dai temporali e impedivano passeggiate su colline da pernici non lontane da quella dove Fausto era nato: il calcare perfetto per coltivare la vigna, i rigagnoli dove dar la caccia alle salamandre, l’acacia bassa e spinosa, le robinie, il frullare improvviso di qualche volatile che cercava cibo nel sottobosco.

Tutto sarebbe stato rivissuto anni dopo, alla prima lettura di “Coppi e il Diavolo” di Gianni Brera. La collina di Castellania, il bosco basso, i piccoli corsi d’acqua come luogo di un’iniziazione, dello svago. Che Brera fosse stato capace di trasformarle in pagine degne delle “Memorie di un cacciatore” di Turghenev o di un racconto di Maupassant, è solo un particolare aggiunto dal tempo trascorso, dai sedimenti accumulati nell’interludio che è la vita.

“All’ospedale di Tortona è morto Fausto Coppi”: chi aveva la televisione, quel 2 gennaio, invitava i vicini per il telegiornale dell’ora di cena. Il cielo chiaro del gelo d’inverno, il succedersi dei visitatori, simile a un pellegrinaggio, la Dama Bianca, i gregari, gli amici, gli avversari, la gente, mamma Angiolina che venne fotografata nella cucina della casa di Castellania e sembrava una di quelle madri che alla patria in guerra hanno dato i figli. Lei, due: Serse e Fausto.

Il funerale venne in un giorno di freddo che attanagliava e un’immagine conserva una moltitudine scura, incappottata, che tentava di salire e dovette rassegnarsi a un’immobilità, a un’attesa, a raccogliere le informazioni che passavano di bocca in bocca, come in “Un giorno di fuoco” di Beppe Fenoglio, in un miscuglio di verità, di deformazioni, di parole dette e non dette, di fatti e di gesti immaginati, desiderati e così avvenuti. Da allora quel giorno è diventato l’occasione per tornare lassù, nel passo sempre più lento di scudieri vecchi e oggi scomparsi, fedeli nella straziante nostalgia, desiderosi di interrompere l’estenuante attesa e di riunirsi a lui, dopo aver avuto in sorte un’ultima visione, una visita. “Da tanti anni sogno che Fausto torni e mi chieda indietro quella maglia gialla che mi aveva aiutato a conquistare per un giorno”, raccontava uno di loro, ruvido come un “grognard” di Napoleone, quei veterani che dicevano che l’Imperatore non era mica morto. Sarebbe tornato: lui tornava sempre, per una nuova avventura.

Toccò a un giornalista francese, Pierre Chany, scrivere il pezzo più bello su uno di questi 2 gennaio che si sono srotolati da un secolo all’altro e toccò al suo giornale, l’Équipe, pensare il titolo che ha lasciato il segno: “Storia di un cavaliere tragico”. In francese, sembra una canzone di Edith Piaf, ma forse è meglio Brassens. Raccontava una vita, un destino, uno stile, gli affetti, i sorrisi tenui, la lievità, i sussurri. Uno degli ultimi fu per Faustino – “Fai il bravo, eh Faustin” – prima che l’oscurità gli piombasse addosso. Faustino era molto piccolo, ricorda e ne parla il meno possibile.

Coppi vive (non sopravvive, non ingiallisce) dentro le immagini: c’è quella rampante della cavalcata da Cuneo a Pinerolo o quella del passaggio della borraccia tra lui e Gino. Dei classici, come il miliziano morente di Robert Capa o uno di quegli attimi di vita fermati da Henri Cartier Bresson. Ne esiste una miriade di private, di minori: con un basco in testa e un paio di calzoni alla zuava mentre si allena a Varazze, diventata la sua corte d’inverno; dopo il traguardo, circondato da scugnizzi senza latitudine, da agenti in servizio, da tifosi che lo accostavano con affetto, con familiarità, senza le isterie d’oggi.

Hanno scritto che Fausto incarnò l’Italia del dopoguerra. Non solo quella. Il primo Coppi, mandato a servizio come garzone di salumeria, sembra venire dai racconti della Malora (ancora Fenoglio …) e quello che va a correre giovanissimo il Giro di Toscana somiglia a Ottavio Bottecchia: macilento, un panino in tasca, un viaggio in terza classe, neanche un pezzo di ricambio, le lacrime amare quando in salita salta la catena. C’è il Coppi del record dell’ora in una Milano livida, bombardata (la stessa del primo record mondiale di Consolini) e quello che finisce in divisa per sbarcare in Tunisia e cadere prigioniero sulla linea della Marmarica mentre l’alleanza italo-tedesca sta andando in pezzi. C’è il Coppi rivoluzionario, incapace di allinearsi alla morale corrente, custode del proprio privato, del turbine dei sentimenti non soffocabili in un Paese che li vorrebbe veder soffocati. Intollerante, come oggi.

Qualcuno ha detto che la sua morte casuale, stupida, banale, a 40 anni, da campione al tramonto ma disposto a scommettere su se stesso, straziò quanto la tragedia che nemmeno undici anni prima aveva spazzato il Grande Torino. Come fosse agevole stilare classifiche del dolore. Sono state ferite che il tempo non ha suturato, ricordi che ognuno di noi affronta a ogni scadenza tornando a sfogliare quel che nessun archivio su rete può permettere: le immagini concesse a chi lo seguì nelle sue remunerative serate al Palais d’Hiver quando Fostò attirava il “tous Paris” degli scrittori, dei grandi sarti e delle loro mannequin, per uscirne in improvvisi annunci di primavera e andare al Nord, sulle pietre della Roubaix, sui muri della Freccia Vallone. C’è il rimpianto di non averlo avuto più tempo tra di noi, destinato a una morte dolce come quella di Gino.