I sentieri di Cimbricus / Pellegrinaggio a Twickenham

Print

Mercoledì 27 Febbraio 2019


twickenham 2


"Alla fine uno si fa l’idea che Twickenham non esista, sia una dimensione, un modo di dire, un improvviso dell’anima avrebbe detto Ionesco, una quercia cava piena di sortilegi, uno specchio da penetrare per entrare in un mondo delle meraviglie".


Giorgio Cimbrico

 

Tra qualche giorno vado a Londra: la scusa è che c’è Inghilterra-Italia del Sei Nazioni, la verità è che mi inoltro in una serie di piccoli riti che mi danno gioia: uno, appena arrivato, è andarmi a sedere nella sala della National Gallery dove, uno di fianco all’altro, sono appesi la Natività e il Battesimo di Cristo di Piero della Francesca e, dopo aver spostato i glutei, spingermi sul divano posto davanti alla parete con i Turner. Il giorno dopo, rotta verso la Fortezza. A seguire, vado a vedere che mostra è in programma alla Royal Academy (ho viste di magnifiche), ceno in un ristorante indiano vicino a Piccadilly, prendo la metro (mi diverte anche prendere la metro e vado a dormire nel mio alberghetto vicino alla stazione di Earls Court, comoda per chi come me l’indomani deve andare alla Fortezza.

A Wimbledon, Church Road; a Twickenham, Rugby Road, così non si sbaglia. Twickenham è diventato uno di quei luoghi della coscienza che popolano la vita e affinano l’immaginazione: lontano come Timbuctù, ricco come un Perù, affollato come il Benares-Calcutta, ordinato come l’Imperial Regio del tempo di Cecco Beppe. silenzioso come il mare (lo diceva anche un grande scrittore come Vercors), tranquillo come la Svizzera. Ovale come Twickenham, la Shangri-la, la serra della Rosa, il luogo dove se non tutto, molto è avvenuto. E alla fine uno si fa l’idea che Twickenham non esista, sia una dimensione, un modo di dire, un improvviso dell’anima avrebbe detto Ionesco, una quercia cava piena di sortilegi, uno specchio da penetrare per entrare in un mondo possibile – e delle meraviglie - con penati in caschetti di cuoio, principi volanti, cori maestosi quanto ne venivano offerti alla Albert Hall in piena età vittoriana. E invece Twickenham c’è davvero, un comune del Middlesex a 15 miglia dal centro di Londra, con la main street, i pub, la vita minuta e corrente.

“Twickenham” è il cartello che si vede scendendo dal treno (parte da Waterloo, direzione Reading) e finendo dentro la siepe umana in lento movimento verso l’uscita. E’ la prima dimostrazione che Twickenham esiste. Le altre prove vengono dall’odore di cipolla fritta e di senape che si alza dai van parcheggiati nei pressi della stazione e che promettono jumbo sausage e hamburger di classe mondiale. Di lì inizia lo scalpiccio della folla, da lì può esser udito il clop clop della polizia a cavallo (più che altro coreografica) e lungo quel miglio scarso possono essere acquistati i panini e i dolci che gli abitanti di Rugby Road mettono in vendita nei giardini delle loro casette. Mai un urlo, mai un berciare mentre ci si avvicina alla Fortezza, alla casa del rugby inglese, al luogo, suggerì Lawrence Dallaglio, dove nessuno è benvenuto.

Twickenham è entrato nel suo secondo secolo. La Fortezza era un campo di cavoli, comprato per 5572 sterline dalla Rugby Football Union su invito e consiglio di Billy Williams, arbitro. Il 10 ottobre 1909, esordio con Harlequins-Richmond: c’èra posto per 17.000, oggi per 82.000. Qualche anno fa, ultimato un hotel (Marriott) da 156 stanze e 6 suites con finestre sul terreno di gioco: per dirla alla Foster e alla Ivory, camera con vista. La nota catena, parafrasando la colonna sonora cantata dai tifosi (swing low, sweet chariot), ha coniato lo slogan “swing low, sleep Marriott”.

Twickenham è un tempio ed è una fabbrica di soldi: a palmi, calcolato che ogni volta che i cancelli vengono aperti, un pomeriggio valga 8 milioni di sterline, ma a novembre per Inghilterra-All Blacks sono stati superati i 12. Perché tutti comprano (l’ingresso nel negozio equivale a conquistare una trincea), tutti bevono (lo stadio si riempie a cinque minuti dal calcio d’inizio), tutti mangiano, tutti ritrovano vecchi compagni di scuola, tanti comprano il programma o visitano il museo dove sono conservati memorabilia imperdibili: uno per tutti, la Calcutta Cup, con manici a cobra ed elefantino sul coperchio. Società multietnica ma a Twickenham pubblico bianco. Middle e upper class, come i giocatori antichi dei ritratti: tipi finiti alla Camera dei Lord, caduti in Birmania, attivi in studi legali dalla lucida targa fuori dall’uscio.

Arrivarci. Paolo Rosi ci arrivò quando il rugby italiano era una cosa di pochi, segnò una meta (al Rosslyn Park) e ne parlò per tutta la vita, Mauro Bergamasco ci è arrivato quasi mezzo secolo dopo e per prima cosa “ho rimediato una cornata da Leonard”, data così, perché si ambientasse con l’urlo della battaglia. I francesi dicono: scendi in campo e sei 10 punti sotto perché l’ambiente non è minaccioso, è ostile.

Twickenham val bene un pellegrinaggio. Io credo di esser vicino al ventesimo e ho sempre addosso una febbre leggera, un entusiasmo infantile che non voglio scrostarmi di dosso.