I sentieri di Cimbricus / Quel che resta dei giorni (europei)

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Giovedì 16 Agosto 2018

 

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Solchi di rughe ed espressioni disilluse che ricordano certe vecchie foto bianco e nero. Ma non c'è miglior posto di Berlino.

 

di Giorgio Cimbrico

Per l’atletica non c’è miglior posto della Germania. Esperienze vissute con trasporto e commozione a Stoccarda ’86, a Stoccarda ’93, a Monaco di Baviera 2002, a Berlino mondiale 2009 e ora, ancora a Berlino europea. Quando gli organizzatori avevano comunicato di aver venduto 250.000 biglietti, non avevano raccontato una balla. Due anni fa, ad Amsterdam, non devono esser giunti alla metà.

Un classico che i vecchi suiveur si tramandano e non mancano di raccontare ai rari nuovi membri della confraternita: 193, Neckarstadion pieno e vibrante alle 9 del mattino. Perché? Semplice, cominciava il decathlon che in tedesco si dice Zehnkampf, dieci battaglie. Anche i nomi hanno la loro importanza.

Ma più che altro ha importanza l’amore per il gesto: sempre sospesi tra classicismo e prischi costumi barbarici e medioevali, i tedeschi sono adoratori dei corpi e di ciò che quegli apparati muscolari sanno produrre in bellezza e volontà.

E così Berlino calda e umida come Bangkok ha offerto il suo lungo omaggio a Robert Harting, campione olimpico, tre volte campione mondiale, sbrigato da chi pratica lo sport della superficialità come l’incredibile Hulk per via di quelle magliette fatte a brani che facevano la gioia della mandria di fotografi che lo incalzavano, lo esortavano a un gesto distruttivo simile a quello del dio Thor. Il gigantone come simbolo e come presenza costante: una proiezione di Harting sul grattacielo che sorge accanto alle rovine della chiesa di Kurfustendamm: un Harting trasformato in membro della tribù dei paperi in un fumetto sul programma giornaliero; un Harting sui manifesti che annunciano l’addio finale, il 2 settembre, ancora all’Olympiastadiom. Non voglio proporre paralleli con un certo paese.

Arthur Abele è stato avvolto da un coro che era un abbraccio: il decathlon, già detto, è il massimo. Abele, che pare anche più vecchio di quel che è, ha il viso che ricorda certe vecchie foto bianco e nero: il soldato della Wehrmacht (non il solito nazista esaltato e crudele) mandato allo sbaraglio sul fronte orientale. Solchi di rughe e espressione disillusa di chi ha avuto solo rovesci. Quando gli hanno calcato sulla testa quella coroncina di cartone che sembrava comprata in un negozio di materiali per festicciole, era l’uomo più felice della terra. Trasognato.

Immensi “Ja” ad ogni parabola disegnata nell’aria da Thomas Rohler. La tripletta Rohler-Hofmann-Vetter non è venuta ma gli aficionados dello speer (giavellotto, ma anche lancia) erano felici ugualmente, dimenticando l’ombra della minaccia portata per un paio di turni dall’estone Magnus Kirt che, a occhio, deve avere ascendenze germaniche. Ottocento anni fa da quelle parti si davano da fare i cavalieri portaspada e a seguire quelli teutonici. Quel che sta a oriente ha sempre destato la loro attenzione.

Clamori serali sul grande viale e nella discesa che porta alla fermata della U-Bahn: tedeschi di tutte le età festeggiavano il raccolto giornaliero (sempre piuttosto consistente, con il contributo di parecchi “nuovi” tedeschi), senza eccessi alcolici, e chi ne guadagnava erano i due bravi chitarristi blues che, sotto un cavalcavia, offrivano il loro repertorio: nella custodia di una delle chitarre si accumulavano monete e qualche banconota. “Un marco e un soldino”, come in una vecchia canzone della Germania che fu e che continua a essere.