I sentieri di Cimbricus / Ciclismo tra stupidita' ed esibizionismo

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Sabato 21 Luglio 2018

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Dopo l'ennesimo esempio di bestialità travestita da passione e che ha costretto Vincenzo Nibali a lasciare il Tour.


di Giorgio Cimbrico

Gli stessi volti, stolidi e crudeli, della salita al Calvario di Hyeronimus Bosch, lungo i tornanti che portano all’Alpe d’Huez, ma, un paio di mesi fa anche sulle salite del Giro d’Italia. Stupidi, esibizionisti, imbestialiti, incuranti dei corridori: a loro dei ciclisti non frega nulla, solo lì per farsi vedere in un attimo sfuggente, seminudi, vestiti da drago, da clown, con i fumogeni ad altezza bocca e naso di chi si arranca pescando nelle ultime riserve di ossigeno. Quando li vedo, provo sentimenti violenti.

Mio padre mi portava a vedere passare o arrivare il Giro: si aspettava lungo la strada, si raccoglieva con un certo compiacimento quel che lanciavano dalle macchine pubblicitarie, si applaudiva quando passavano i corridori: se erano in gruppo, il gioco era riconoscerne qualcuno al volo: Defilippis, Nencini, Darrigade.

Un’occasione che si ripeteva ogni anno era il Giro dell’Appennino, durissimo. In cima alla Bocchetta, posto di confine tra la provincia di Genova e quella di Alessandria, andava in scena uno spontaneo picnic con quelli che non venivano ancora chiamati finger food o street food: focaccia, verdure ripiene, pane e salame. I corridori passavano lentamente, stravolti dalla fatica. A quelli più in difficoltà veniva concessa la grazia di una spinta. Qualche applauso, qualche grido di incitamento ed era tutto.

La realtà è che quello era un mondo semplice. Questo non è complicato, è vuoto, e chi è più vuoto, più idiota è anche il più svelto ad impossessarsene con una “mìse” da imbecille, con un telefonino lancia in resta, con l’idea di farsi notare a tutti i costi. Come quel tipo che ha dato un pugno in testa a Froome perché oggi è il bersaglio. Hanno fatto in fretta a dimenticarsi del Tour del ’98, quando a Parigi arrivò la metà di quelli che erano partiti, degli anni di Armstrong (nell’albo d’oro un buco profondo come quello lasciato dalla seconda guerra mondiale) e da quello, uno solo e sufficiente, di Landis. Quelli con il doping picchiavano molto duro.

Ora, dopo quel che è capitato a Nibali, capiterà di udire soluzioni di ogni tipo: chiudiamo – prego, blindiamo, un verbo che fa sempre un certo effetto - le salite, transenniamole dal primo all’ultimo metro, facciamo dei filtri, prepariamo un imponente sistema di sicurezza, pardon, di security. Nel caso che i problemi persistano, arrestiamoli, incateniamoli, mandiamoli all’isola del Diavolo con Steve McQueen e Dustin Hoffman, spediamoli in un campo di lavoro nella taiga siberiana.

Io avrei una pena più severa: obbligarli a leggere “Coppi e il diavolo” di Brera e una scelta di pezzi di Fossati che trovai un giorno alla partenza di una Sanremo, vicino a S. Ambrogio, e finimmo per chiacchierare di un giorno che gli era caro: era all’Arena il 15 luglio 1939 quando Rudolf Harbig sottopose gli 800 a un processo di violenta modernizzazione. “Ci aveva portato il nostro insegnante di educazione fisica e gliene siamo stati grati per sempre”: Harbig, Lanzi, Brandsheit, Bellini, un quartetto d’archi. Settantacinque giorni dopo scoppiava la guerra.