Terza pagina / UK-US: la prima volta a White City, 55 anni fa ...

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Martedì 10 Luglio 2018

 

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Il benvenuto più affettuoso ad una grande firma del nostro giornalismo, con un ricordo sugli inizi della sua carriera.

 

di Gianni Romeo

 

Sabato 3 agosto 1963, aeroporto di Caselle, ore cinque e trenta, l’alba sta dipingendo l’orizzonte. Salgo sull’aereo per Milano, chissà se esiste ancora quel collegamento, 150 km che si rivelano una specie di luna park, il velivolo si impenna, va su, su, e appena ha toccato il cielo si getta in picchiata, Linate è già lì. Venti minuti di batticuore, per un giovanottino di 23 anni il battesimo dell’aria non è stato il massimo. Ma non c’era alternativa, un’ora dopo mi attende il volo per Londra. Il mio vocabolario inglese possiede una trentina di parole, ma a quell’età chi se ne frega?

 

Il quartetto britannico che quel sabato di agosto, superando gli USA con Bob Hayes in ultima (ma che ampiamente si rifarà a Tokyo), stabilì il "mondiale" della 4x110 yarde: 40"0 a 40"1 il responso. Da sinistra: Ron Jones, Peter Radford, David Jones e Berwyn Jones.

  

Dall’aeroporto all’hotel, ricordo ancora il nome, Bayswater. Mollo la valigia nella hall, poi taxi per lo stadio White City. Il cielo è nero, sbuffi di pioggia, dell’ombrello o l’impermeabile non se ne parla, chi immaginava che a Londra in agosto l’estate non è prevista? Individuare Ennio Caretto è facile, è il corrispondente della Stampa, un caro amico di Renato Morino, quando c’è bisogno noi di Tuttosport bussiamo a lui. Facile riconoscerlo, mi aveva detto al telefono che sembra un pirata, benda all’occhio sinistro per via di un incidente. Eccolo il pirata, ecco il biglietto di tribuna stampa.


Due giorni fa sapevo appena che esisteva, White City, per via di Dorando e poco altro, non pensavo di andare a Londra, avevo programmato una gita a Dronero per salutare la fidanzatina. Ma Morino, il mio capo, è un vulcano. Mi ha messo sull’attenti e mi ha detto vai, è l’unica occasione che abbiamo per vedere con i nostri occhi i marziani statunitensi un anno prima dell’Olimpiade di Tokyo. Marziani è un termine che si era inventato quel gran giornalista, dovevo rispondere che avevo qualche problema con l’inglese, che alle scuole di Dronero insegnavano il francese come seconda lingua, per via della vicinanza geografica? Con un no la mia carriera non ancora iniziata sarebbe finita lì. Vado, avevo risposto.

Il più è fatto, in ogni caso. Credo ai miracoli, salgo le scale di White City, resto incantato. Una tribuna in legno che è un gioiello, la pista in carbonella che chiude il verdissimo prato (pettinato all’inglese, verrebbe la tentazione di dire con una battuta da quattro soldi), le Giacche Rosse della banda che suonano, mentre un pubblico ordinato fa la fila … Fra cent’anni questo sarà un monumento apprezzato, mi dico. Infatti White City verrà demolito nel 1985, sapremo poi, per fare spazio ai nuovi studi della Bbc.

Il più sarebbe fatto se non fosse per un particolare da niente. Cominciano le gare: distanze, tempi, misure, tutto viene annunciato in yarde, pollici, piedi e fin che ce n’è. Di traduzioni nelle nostre misure non c’è traccia nemmeno sui fogli distribuiti ai giornalisti. Mi guardo intorno smarrito. Per fortuna ho buone orecchie e a una decina di metri, più in basso, sento parlare italiano. Ci sono due giovani come me, uno è piccolino e magro, l’altro più ben messo, sembrano a loro agio. Vado. Piacere, Gianni Romeo. Io sono Antonio Foresi, io sono Gianni Capitani. Hanno più o meno la mia età, si stanno tuffando anche loro nel giornalismo sportivo. Antonio parla bene l’inglese, arriva da una famiglia importante, ha l’accento un po’ snob, ma è subito compagnone come Gianni, romanissimo, allegro. Non li mollo più. Antonio deve raccontare i marziani sul Tirreno di Livorno, Gianni sul Tempo e sul Corriere dello Sport.

Problema di tradurre le misure inglesi non c’è, Antonio impassibile apre il borsone dal quale spunta un manuale magico. E con la lingua siamo a posto. Mi sento quasi un re, mi manca soltanto il pullover. Umidità, un vento che va e viene, scrosci di pioggia. La pista è di pappa. E infatti il divino Bob Hayes pensa in primo luogo all’incolumità quando gli tocca, si preoccupa soprattutto a dribblare le chiazze d’acqua. “… ma quando sente sul collo il fiato degli avversari cambia letteralmente marcia”, scriverò su Tuttosport , “e diventa un toro scatenato”. Vince le 100 yarde in 9’’5, vale 10’’4 sui 100, scopriremo un anno dopo che quella è stata la prova generale di Tokyo, perché all’Olimpiade del ’64 troverà le stesse pessime condizioni e anche quella volta sarà toro scatenato.

La domenica londinese naturalmente è consacrata al riposo, quel giorno si festeggia la nuova amicizia con una bella cenetta, anche un bicchiere di vino, che a Londra è oro. Offre Antonio, ha capito che le finanze dei due Gianni sono ridotte, dal Tuttosport avevo ricevuto un budget buono per hamburger, patatine e poco più. La sfida dell’atletica riprende il lunedì, finalmente anche a Londra è arrivata l’estate, le condizioni sono ideali per un exploit. E John Pennel, l’astista, non se lo fa mancare. Da un annetto o poco più l’asta in fibra ha mandato in pensione il duro attrezzo in metallo e la corsa verso il cielo ha subìto un’accelerazione. In primavera Pennel aveva fatto il suo primo record a 4,95 e aveva ingaggiato un entusiasmante braccio di ferro con il connazionale Brian Sternberg, che era salito fino a 5.08. Poi una caduta rovinosa, la paralisi, per Sternberg il crudele destino di una vita in carrozzella … Pennel riprende lo scettro, qui a Londra fa il suo sesto mondiale dell’anno, 5.13.

In tribuna ormai mi trovo come a casa mia, ho conosciuto un giovane francese distinto che pizzica la erre, Robert Parienté dell’Équipe. Da quel giorno, per una trentina d’anni, sarò per lui “gianì”. Mi tengo stretto come una reliquia, ancor oggi, un suo regalo imperdibile, “La fabuleuse histoire de l’Athletisme”, un monumento di 800 pagine. Dice Parientè, quel giorno: il salto con l’asta è diventato un altro sport. Lo conferma il capocoach degli USA, Payton Jordan, quando andiamo a trovarlo il giorno dopo al Mount Royal Hotel: “Pennel con le aste in metallo non avrebbe superato i 5 metri …”. L’inglese di Antonio Foresi è un’assicurazione, il terzetto piemontese-toscano-romano si era presentato all’hotel e il tecnico della Stanford University non si era fatto pregare. Niente cerimonie o appuntamenti, l’atletica allora era un territorio libero, free, senza nessuna pastoia burocratica.

Anche i giornali erano un’altra cosa. Sfoglio ora le raccolte di Tuttosport: la prima pagina di quel 7 agosto 1963, in pieno calciomercato, offre il titolo di apertura allo sprinter Sante Gaiardoni, eroe dei mondiali della pista, con il commento di Giuseppe Ambrosini. Conquisto la spalla con l’intervista a Payton Jordan: “Gli Stati Uniti a Tokyo come leoni affamati”, titola il mio giornale.

Conclusione del revival: devo un grazie a Gianfranco Colasante, che lo scorso anno aveva anticipato su SportOlimpico la ripresa dopo più di mezzo secolo del confronto Gran Bretagna-USA, in arrivo il 23 luglio (The Meet) e mi aveva aperto uno squarcio nella memoria. Ora, nell’imminenza di quella nuova sfida, ne approfitto per dire grazie anche ai ragazzi di allora. A Gianni Capitani, con cui ho rinnovato l’amicizia mille volte nell’incrocio della nostra vita professionale, che ci ha lasciati da pochi mesi in punta di piedi, con la discrezione di sempre; ad Antonio Foresi, dal quale ho perso i contatti dopo la sua brillante carriera in RAI. Ascoltavo la sua voce con la “erre” quand’era il corrispondente da Bruxelles e non aveva, non ha mai dimenticato il primo amore, l’atletica.