I sentieri di Cimbricus / Rimpianto per il cantore Paolo Rosi

Print

Lunedì 12 Febbraio 2018

irlanda-italia

di Giorgio Cimbrico

In “Roma” Fellini ricostruisce il vecchio Ambra Jovinelli: soldati in libera uscita, mangiatori di lupini, segaioli, comici senza più verve, ballerine cellulitiche, lanciatori di gatti morti, tripponi in canotta. Un repertorio di grevità degno di un’incisione di Hogarth, di pinturas negras di Goya. Il clima in cui agli italiani viene offerto il rugby non è così tenebroso ma un po’ assomiglia: il conduttore con un accento marcato, che mai ha pensato di correggere, di limare, di limitare; il piccolo pubblico in studio che applaude obbediente e stolidamente felice; la novità della signora che sferruzza: è una Parca o è la zia Assunta?

Il tavolone che vuol riprodurre un ovale e che finisce per assomigliare a un pallone da football americano; un persistente spot pubblicitario porno soft, allietato da un ben pasciuto lava-auto e da una signorina che non deve essere Lady Asquith; la promozione di programmi che in America avrebbe come fruitori gli autisti dei trucks, i maxi camion che abbiamo visto in Duel, in Convoy, In Thelma e Louise  e in molti altri film on the road.

Penso a certi studi della BBC e ai volti che li popolano, alle parole e ai concetti che vengoo usati, e constato che siamo irrimediabilmente diversi: sempre alla ricerca dell’effettaccio-effettino, dell’uomo che morde il cane, dello strano ma vero, della normalità perduta o mai posseduta. E questa parte, giusto precisarlo, non riguarda soltanto quel che viene prima, a metà e dopo la partita, ma soprattutto in quel durante terribilmente divertente: lo scrosciare delle risate di uno dei membri della sperimentata coppia mi fa pensare che sia io a non capire, a non cogliere e, in definitiva, ad essere sempre più esposto alle impietose raffiche dello spietato feldmaresciallo Alzheimer.

E’ un caleidoscopio, una cornucopia di immagini, di battute, di esercizi verbali (di stile, no) che confluiscono in una Biblioteca di Babele costruita su frettolose letture, in sale cinematografiche, in luoghi deputati al rugbystico terzo tempo. Più brevemente, più brutalmente, un tempo si parlava di umorismo da caserma o da oratorio o da spogliatoio, dove la caduta della saponetta poteva scatenare memorabili lazzi o grovigli laocoontici.

Sono abbastanza in là con gli anni per ricordare Paolo Rosi che fece scoprire il rugby a generazioni: era un vecchio azzurro che aveva affrontato i Galletti e segnato una meta a Twickenham, era un cronista, era un poeta, un cantore d'atletica, era anche un amico, e aveva assorbito, con amore, quel repertorio che rende il rugby unico: un balletto e un assassinio, disse Richard Burton, gallese: l’erba di Murrayfield spazzata dal vento gelido delle Highlands, la regina Elisabetta che indossa uno spericolato cappellino di paglia verde, il pilone che notiamo leggermente appesantito, le facce poco raccomandabili degli avanti francesi, lo scontro impietoso, la cavalleria leggera. Erano tratti di penna, era note appena accennate sui tasti del pianoforte.

Erano tratti di penna, era note appena accennate sui tasti del pianoforte. Tutto questo non potrà essere rubato, non potrà essere cancellato, spazzato da questa marea montante in cui il profitto ha preso il sopravvento e tutto quel che potevamo accarezzare con un tocco leggero e affettuoso, è ora preda di manacce, di battute grossolane, di calcoli, di indici, di risate.