Londra '17 / Falliscono anche i saltatori in alto. E ora?

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Venerdì 11 Agosto 2017

tamberi-2017

di Daniele Perboni

Confessiamocelo onestamente e realisticamente. Alla vigilia di questi Mondiali avevamo risicate possibilità di salire sul podio. Una di queste rispondeva al nome di Gianmarco Tamberi (foto Colombo/Fidal). Quel giovanotto che solitamente si rasa mezza barba e di questo vezzo ha fatto un marchio di fabbrica. Già, perché non brevettarlo? Purtroppo, però, anche il ragazzo marchigiano ha copiato quanto già messo in campo dai suoi compagni di squadra, lasciando la brigata prima del previsto. Non che la sua qualificazione nell’alto fosse data per scontata, ma la grinta che ha sempre dimostrato, unita alla gran voglia di riscatto lasciavano spazio all’immaginazione. Le favole, purtroppo, sono un’altra cosa e la vita ti mette di fronte alla cruda realtà. Il Gimbo nazionale si è battuto come meglio poteva, contro avversari agguerriti. Metteteci inoltre che in questi mondiali la “qualità” media dei concorrenti era piuttosto alta e il gioco è fatto.

Entrato in gara a 2.17, li ha superati al primo assalto. È proseguito poi sino a 2.29, passando per i 2.22 e i 2.26 (tutti al secondo tentativo) con salti praticamente fotocopia: asticella sfiorata, tremolante sui sostegni e mai caduta. A quella quota si son trovati in 17. Peccato che in finale ci dovevano andare in 12, come da regolamento. Per il computo dei vari salti nulli, Tamberi si è ritrovato tredicesimo. Imperativo, dunque, valicare la quota successiva a 2.31. Misura che in questo ultimo anno, causa la duplice operazione subita dopo il grave infortunio a cui è andato incontro nel luglio 2016 nella tappa della DL a Montecarlo, non è mai riuscito a valicare. Anzi. Già il 2.29 risultava il personale stagionale. Come a molti altri il 2.31 si è rivelato fatale. Missione fallita.

Disperazione totale, con tanto di lacrime anche davanti ai microfoni RAI. «Ho lottato fino all’ultimo salto, ci ho messo l’anima, oggi e negli ultimi 365 giorni. Non mi sono arreso neanche un secondo. A 2.29 mi sono stupito di me stesso, perchè oggi è una di quelle giornate in cui non mi stacco da terra. Speravo con tutto il cuore che bastasse per la finale, e invece oggi serviva fare di più. Dopo tutto quello che ho passato, credevo di meritare un pizzico di fortuna. È difficile da accettare, perchè nell’ultimo anno non ho fatto mai un passo indietro, non mi sono mai arreso, non mi son risparmiato nulla. Ora ho bisogno di rifiatare un attimo, improvvisamente sento addosso tutto il peso degli allenamenti, della riabilitazione, della dieta. Sono stanco, non mi reggo in piedi».

Poi si riprende ad eccolo nuovamente lo spavaldo ragazzo: «Per il futuro non ho alcun dubbio. Tornerò quello di prima. Già dal prossimo inverno».

Delusione anche per Alessia Trost, che solo 24 ore prima aveva fallito l’assalto alla finale, di pari passo con la collega Erika Furlani. Misura di qualificazione fissata a 1.94. Piuttosto severa. Out entrambe. La Furlani è fuori a 1.85, dopo aver superato 1.80 alla terza. La Trost resiste sino a 1.89 (al terzo tentativo), poi cede a 1.92. «Mi aspettavo un risultato diverso – le sue parole – Soprattutto mi aspettavo di tornare in pedana domenica. Questa mancata finale è figlia sia di instabilità tecnica che di un’incapacità a gestire la gara a livello emotivo. Alla fine servivano tre centimetri in più o due errori in meno a 1.89. Alcuni salti erano molto buoni, in particolare alle misure più alte. Gli errori a 1.89 e 1.92 sono dovuti a incertezze nella velocità d’entrata e nelle distanze, e purtroppo nel finale sono tornata, quasi con automatismo, al mio vecchio salto… che ora però non è produttivo. L’unico, minuscolo, lato positivo è che sappiamo dove abbiamo sbagliato e in che direzione andare per mettere insieme tutti i pezzi. Ma intanto è molto dura mandare giù questo risultato. È stato un anno duro e complesso per tante ragioni. Il bello dell’atletica è che ti permette di lasciare tutto da parte, di isolarti e goderti un grande stadio pieno di gente come questo di Londra. Ma non sempre è sufficiente. Ritornerò in pedana per correggermi».

Due saltatori di livello internazionale. Un unico allenatore: Marco Tamberi, padre di Gimbo. Due fallimenti. Per motivi diversi, sia chiaro, ciò che resta a futura memoria, però è il risultato finale.

Da più parti i mugugni hanno ripreso forza e vigore. Qualcuno, per quanto riguarda la Trost, si sta domandando se era proprio il caso di stravolgerle la tecnica, visto che da giovanissima aveva già ottenuto misure importanti, superiori ai due metri. Qualcun altro sostiene che con le vecchie metodologie e la tecnica di salto precedente, rimasta pressoché immutata, ormai era giunta al capolinea e non sarebbe più riuscita a migliorarsi. Da che parte sta la ragione? È vero anche che la ragazza negli ultimi mesi ha dovuto superare difficoltà familiari e non piuttosto pesanti. Vedi la morte della madre e, più recentemente, quella del vecchio allenatore Gianfranco Chessa. A tutto questo aggiungiamoci le incomprensioni, se così vogliamo chiamarle, nel passaggio tra un tecnico (Chessa) e l’altro (Tamberi). Il risultato di questa cagnara è sotto gli occhi di tutti. Un’atleta che a inizio carriera gareggiava alla pari con le grandi di oggi, mentre ora deve accontentarsi di una promessa: «Ritornerò».

Quasi in chiusura di serata sfumano i sogni di aggiungere qualche misero punticino nella classifica a punti. Marco Lingua, nel martello, si piazza saldamente al decimo posto con 75.13. Cosa chiedere di più a questo trentanovenne che si è divertito, in anni passati, con esibizioni di forza al limite dello spettacolo circense? E, in linea con la sua filosofia, alla fine ha affermato: «Sono più che contento di essere fra i migliori dieci specialisti al mondo. Questo è il mio hobby, l’anno prossimo sarò fra i migliori europei…» e via con i consueti ringraziamenti.

Che dire di più! Amareggiati? Delusi? Ci stiamo preparando alla solita Caporetto? Per ora restiamo in attesa.Di cosa? Boh! Intanto le munizioni stanno per esaurirsi, anche se un “pezzo da novanta” dobbiamo ancora metterlo in canna.