Basket / Ridateci Bologna, ... la gente ha bisogno di sogni

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Giovedì 12 Maggio 2016

virtus bo

di OSCAR ELENI

Ridateci Bologna. Subito. Quella dove il basket aveva scelto di avere la sua città, il suo tempio, le sue grandi tribù, mecenati che ingaggiavano artisti, turisti che pianificavano il viaggio di nozze per vederle all’opera le grandi di Bononia cestistica. Non potete togliercela così, adesso che la Virtus - 15 scudetti, 8 Coppe Italia, 4 grandi trofei europei -, è scesa di un piano, una tristezza anche se il basket vuole essere gentile, ad usum delfino sponsorizzatore, chiamando A2 il secondo campionato dietro quello che a metà giugno ci darà la nuova squadra campione d’Italia sapendo già che a Sassari, eliminata da Reggio Emilia, sconfitta nella finale dell’anno scorso, hanno cantato una sola estate.

Non sarà certo la vera Bologna se Virtus e Fortitudo dovessero fare il derby nella seconda serie. Bello, creativo come sempre, ma di serie B e la città, che già soffre per la sua squadra di calcio appena presa per i capelli e salvata da un santo subito come Donadoni, uomo raro nel calciomelmato, si melmato, non c’entra il mercato sempre aperto, per riprendersi avrebbe bisogno di tornare quella che Lucio Dalla amava alla follia, quella del basket appunto, quella del suo indimenticabile Caruso.

Eh no. Eravamo abituati a cose ben diverse, infatuati al punto che nei sogni stracciati di giocatori senza talento pensavamo che sarebbe stato magnifico giocare a Bologna per una delle sue due grandi contrade, nella città che ne ha avute anche tre o quattro al vertice.

petersen

Dan Peterson in trionfo dopo la conquista del settimo scudetto.

Dalla sala Borsa, al Madison di piazzale Azzarita costruito aspettando l’Olimpiade romana. Gli eskimo bianchi dei campioni Virtus con Nino Calebotta che a Milano voleva suicidarsi, troppo alto, nascondeva la sua altezza e a Bologna era diventato più bello della Garisenda stortignaccola e degli Asinelli. La storia delle Vu Nere, splendori e miserie, ma sempre al vertice. Quando la prese Gianluigi Porelli, avvocato, mantovano, principe del fittone dell’Alma Mater bolognese, obbligato dalla presidenza, anche se lui sembrava affascinato dal tennis che giocava meno bene del bridge o del poker della sua vita spericolata alla ricerca di sogni, era sull’orlo del baratro come questa che non ha trovato il ponte per passare oltre l’umiliazione.

Spareggi di Cantù. Altro secolo, anni settanta. Vittoria grazie al Giorgio Buzzavo che, ironia della sorte, ma se hai qualità come grande dirigente non si può parlare di fortuna, dopo la vita sul campo ha lavorato per il basket fino all’ incontro con Gilberto Benetton, la folgorazione che ha fatto di Treviso l’arca della gloria per basket e pallavolo, oltre che, naturalmente, il rugby, simbolo della Marca, almeno fino a ieri.

Da quella salvezza una storia nuova. Porelli e i suoi pretoriani, una squadra, amici, ex grandi giocatori, gente che capiva, sapeva, gente che poteva capire e sfruttare al meglio la nuova genialità del Dan Peterson trovato per caso in Cile dopo la rinuncia di Rolly Massimino. Sembrava un cantante rock, nano ghiacciato che è diventato gigante e campione dando a Bologna vittorie che mancavano da vent’anni. Piazza Azzarita divenne il campo più bello d’Italia. Armonia, colori che non stonavano, gente che bivaccava la notte per potersi riabbonare, il grande Andalò come sacrestano, capomanipolo per la sicurezza e la certezza, un diacono con quel suo grembiule nero che lo faceva temere, per fortuna, perché era un uomo di dolcezza straordinaria.

Grande Virtus, ancora più grande nel confronto cittadino con la bella Fortitudo inventata da Giorgio Seragnoli che aveva rilevato la società di via San Felice dai credenti, gente che ha fatto storia sul campo e fuori, dal papa Parisini, all’allenatore Beppe Lamberti, sotto l’alto magistero dell’onorevole Tesini. Una tribù a cui piaceva, piace ancora, combattere dalla parte di Don Chisciotte. Epica per il cuore dell’amata, per l’umiliazione della non venerata casa madre virtussina.

Che Bologna era quella del Lombardi (Dado) imperante. Che bella quella dopo. Ci restammo un mese per lavoro, durante l’epica finale scudetto con il tiro di Danilovic che divenne da quattro punti, cesto da tre valido più tiro libero, per un supplementare che mandò tutti alla neuro e qualcuno, purtroppo, ci è rimasto a lungo. Non ci sarà mai più una finale del genere, anche se restiamo affezionati all’ultima fra Sassari e Reggio Emilia che hanno scritto una pagina diversa: bella, ma diversa.

Storia del basket italiano quando non si mendicava un posto a tavola e non ci si faceva imporre niente, anche perché alla FIBA centrale il Porelli tonante, con la Lega italiana, aveva opposto un progetto al passo con tempi dove chi mette tanto nello sport chiede di avere indietro almeno una parte. Certo che la base è fondamentale e di quella devono occuparsi le federazioni, le organizzazioni mondiali. Ma quando si arriva al professionismo allora serve altro.

Bologna ne è la prova. Spariti i mecenati, passati i guai con questo o quel millantatore di milionari agganci, eccoci sul fondo del barile, con tante cose da raschiare prima di tornare dove Bologna deve essere. Lassù, padrona, ma non tiranna, perché la gente ha bisogno di sogni, di Leicester, di Verona, di Cagliari, della Sassari cestistica, della Sampdoria di Boskov, così come aveva bisogno della Treviso della Ghirada e della sua cittadella dello sport. Non è nostalgia. E’ la richiesta di avere indietro quello che abbiamo più amato. Meglio se ci saranno in tanti a contrastarla, ma intanto ridateci Bologna.