I sentieri di Cimbricus / L'oscena eta' dell'inconsistenza

Print

Lunedì 10 Gennaio 2022

 

          stampfl


Una età impossibile da comprendere, da rifiutare. E così viene una gran voglia di ricorrere ai classici che nel nostro caso sono racconti, abbozzi di racconti, di uno sport sparito e dei suoi attori. Un esempio?

Giorgio Cimbrico

Dove siamo finiti, come siamo finiti. Senza punto interrogativo. Da ieri, per andare a comprare un po’ di pane e focaccia, devo indossare una maschera a becco di pappagallo che ricorda quelle, imbevute di aceto o di profumo, dei medici del tempo della peste di “manzoniana memoria”. Il mantello non ce l’ho. Continuo a ricevere telefonate o messaggi di chi mi vuole vendere un nuovo rivoluzionario wi-fi.

Ho provato a spiegare che quello che ho mi basta e avanza (leggo The Guardian, do un’occhiata a quel che capita in atletica e rugby, scrivo e invio ai soliti indirizzi, ai soliti destinatari), ma loro incalzano e non si fanno impietosire né dalla mia età, che faccio presente come fosse uno scudo, una protezione, né dal mio linguaggio che per loro deve essere arcaico, estraneo.

Mi sto ritrovando nel protagonista di uno dei libri più interessanti che ho letto negli ultimi anni, “Aspettando i barbari” di M.J. Coetzee, sudafricano, premio Nobel nel 2003. Influenzato da “Il deserto dei tartari” di Dino Buzzati? Può darsi. Con la differenza che Drogo lascia la scena nel momento più atteso di un’esistenza intera mentre il magistrato di Coetzee, dopo aver subito sofferenze e persecuzioni da un potere implacabile e crudele – il rinvio è inevitabilmente al regime bianco dell’apartheid – ritrova nel finale qualche residua speranza, qualche regola per sopravvivere, per citare Richard Matheson, uno dei maestri della fiction sociale diventata realtà che corre sulla nostra pelle.


L’analisi sul potere prevede tempi lunghi ma raramente sbaglia. Pensate a Huxley, a Orwell, a Bradbury. E pensate anche alla libertà di espressione in un mondo pieno di beep: Kubrick scrisse un rosario di oscenità per il “benvenuto” del sergente istruttore alle reclute in “Full Metal Jacket” e Bertolucci apri la porta a un paio di bestemmie contadine in “Novecento”. Libertà e creatività sono legate, sono una cosa sola. Oggi sparite, l’una e l’altra.

E così mi è venuta una gran voglia di ricorrere ai “classici” che nel nostro, modesto caso sono racconti – o abbozzi di racconto – di uno sport sparito. Condenso in poche righe l’avventura di Franz Stampfl, maestro nella teoria e nella prassi dell’allenamento. (nella foto).

Stampfl nasce a Vienna nel ’13 – Gustav Klimt e Egon Schiele sono ancora vivi, ma per poco, così come l’Impero austroungarico K und K, Freud e Jung non sono ancora avversari, la guerra non è finita a Natale –, sua madre è una principessa russa, Caroline Yusupov. Franz studia arte, scia e lancia il giavellotto.

Quando arriva l’Anschluss, scappa in Inghilterra e studia alla Chelsea School of Art. Gli fanno presente che se non ha un’occupazione deve tornare in Austria: chiede aiuto e chi gli dà una mano è Harold Abrahams. Insegna educazione fisica e comincia a sperimentare nuovi metodi di allenamento.

Nel 1940, insieme ad altri 1200 tedeschi, austriaci e italiani residenti nel Regno Unito e internati, viene deportato in Canada. La nave su cui viaggia, la “Aradora”, viene silurata da uno U-boot. E’ tra gli 800 che si salvano. Lo riportano in Inghilterra e lo deportano ancora, questa volta in Australia, si sposa, riesce a tornare in Inghilterra, si offre come allenatore ma è uno straniero, un nemico. Riesce a collaborare con Cambridge e Oxford, allena Bannister e le “lepri” Chataway e Brasher, ma quando il muro dei 4’ cade non partecipa ai festeggiamenti. Sale sul primo treno per Londra ed evita di apparire.

Torna in Australia, lavora alla Melbourne University, trova Ralph Doubell, che ha cronici problemi al tendine d’Achille, lo recupera e a Messico, nel ‘68, lo porta alla medaglia d’oro e al record mondiale degli 800. Una vita piena. Una vita. Di tipi così, perse le tracce. Franz ha vissuto l’età dell’ansia, noi stiamo vivendo quella dell’inconsistenza.