I sentieri di Cimbricus / E cosi' sistemiamo anche la Davis

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Venerdì 23 Novembre 2018

 

coppa davis 76 2

 

Domani a Lille si scrive l'ultimo capitolo della Coppa Davis, emblema nobile di un mondo ucciso dal mercato e dal business.

 

di Giorgio Cimbrico


Sistemata anche la Davis: l’iconoclastia è tornata prepotentemente di moda e lo sport sta subendo pesanti perdite. Ultima finale, in corso a Lille, tra Francia e Croazia. Che la storia finisca nel paese dei Moschettieri, che ne vinsero una raffica a fine anni Venti, porta un soffio di commozione e di nostalgia. Dall’anno prossimo, auspice una compagnia presieduta da Gerard Piqué, difensore del Barcellona e evidentemente già impegnato a costruirsi un futuro imprenditoriale, il rimodellamento frankensteniano prevede la partecipazione di 24 paesi, una sede unica, match due set su tre, contrazione a due giorni di gara.

Magnifiche storie lasciate alle spalle: il pubblico sgherro di Bucarest, l’India che non gioca contro il Sudafrica dell’apartheid, il trofeo diventato fioriera nella lunga “cattività” australiana durante la prima guerra mondiale, l’Italia in campo tra le polemiche nel Cile del golpe (nella foto), le trasferte in capo al mondo, il senso dell’avventura, da riassumere nelle immagini di Pietrangeli e Sirola nelle due sfide agli antipodi, contro gli “aussies”, l’etichetta, snobisticamente mai appiccicata, di campionato mondiale a squadre.

Un magazzino dei mondi per cui i francesi hanno la migliore delle formule possibili: chanson de geste, iniziata con i pantaloni lunghi di flanella, proseguita con i calzoncini corti dei tempi di Borg. Inutile soffermarsi sulle racchette: sarebbe come parlare delle aste di Cornelius Warmerdam, l’olandese volante, e delle fionde dei nostri giorni.

In questo commiato che non vuole avere le cadenze ferali di un requiem, né indurre alle lacrime, si rendono necessarie un paio di precisazioni. La prima riguarda il trofeo, chiamato chissà perché insalatiera, creata dagli argentieri Shreve Crump e Low, con decorazioni disegnate del britannico Rowland Rhodes. In realtà non è un’insalatiera ma un contenitore per il punch. È sufficiente dare un’occhiata a una brano del “Massacro di Fort Apache”: quando John Wayne e Pedro Armendariz (doppiato da Alberto Sordi) tornano dalla ricognizione e dall’incontro con Kociss, trovano gli ufficiali impegnati, in compagnia di consorti e figlie, nell’annuale ballo organizzato dai sergenti. Il punch può esser pescato con un mestolo in un manufatto che ha una forte somiglianza con quello che, circa 25 anni dopo i fatti narrati nel film di John Ford, nel 1900, sarebbe stato messo in palio nel challenge tra Stati Uniti e, secondo etichetta del tempo, British Isles al Longwood Cricket Ground di Boston, su quello che i britannici definirono un campo abominevole.

L’altra precisazione riguarda Dwight F. Davis che qualche attento studioso di storia dello sport ha avvicinato, per aura sprigionata, a William Webb Ellis, inventore, con audace gesto, del rugby. È chiaro che Webb Ellis non ha inventato il rugby: semplicemente, nel magma in cui navigava il football, si impose lo stile della scuola di Rugby e l’adolescente, rappresentato come lo spiritello Ariel, ne divenne simbolo.

Davis, nativo di S Louis da famiglia ricca e potente, ha contorni più precisi, soprattutto perché i fatti che lo riguardano sono molto più vicini a noi. Faceva parte dei “Quattro di Harvard” che preparò il terreno alla nascita della disfida, prese parte al primo faccia a faccia, vinto dagli americani, così come a quello del 1902. Il fatto che abbia pagato il conto (salato, 1000 dollari) inviato dagli argentieri sta alla base dell’intitolazione, dagli anni Quaranta, della tennistica “guerra dei mondi”. Nel frattempo Davis, come ogni buon prodotto harvardiano, aveva fatto il proprio dovere in guerra, al fianco di Harry Truman, e occupato posti importanti - segretario al Ministero della Guerra negli anni Venti e, più tardi, governatore generale delle Filippine - lasciando tracce ben più profonde di quelle impresse sui campi da tennis