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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





Amarcord / Alfredo Berra, l'ultimo dei profeti [1928-1998]

Martedì 14 Gennaio 2014

 




(gfc) Ho incontrato per la prima Alfredo Berra nella mattinata del 10 aprile 1965, alla stazione di Verona, città che quel giorno ospitava il congresso dell’AISAL, piccola e defunta parrocchia di accoliti della quale, quel giorno, fui eletto presidente. Prima c’era stato solo uno scambio di lettere: le sue arrivavano a Pescara con le piccole buste rosa della “Gazzetta”, il suo gornale che a me, studentello un po’ distratto, aveva offerto una piccola rubrica. Si chiamava: “La Settimana di Colasante”. Erano quelli tempi nei quali la passione per l’atletica, vissuta con slanci e turgore, era coinvolgente e sanguigna: si nutriva di genuini entusiasmi e si alimentava di arcigni scontri dialettici, quasi fisici, ma erano anche i tempi nei quali – nel nome di una comune e orgogliosa appartenenza – si stringevano amicizie destinate a durare una vita.

Quella che io ho avuto per Berra dura ancora. Anche se trasferita da anni nel silenzio della memoria e del rispetto. Per l’ultimo dei profeti. Quando lo seppellimmo, a Grottaferrata, in un giorno d’estate, di vento e di sole, non eravamo in molti. In un silenzio greve, interrotto solo dagli irrefrenabili singhiozzi di Giorgio Lo Giudice, che gli era stato nel contempo figlio e custode. Non ricordo tutti gli altri volti: c’erano Paola Pigni, Ruggero Alcanterini, Renato Biagioli. Scuseranno gli altri che qui trascuro. Mondi ed epoche diversi richiamati dalla stessa campana a morto.

L’immagine che sin da quel primo incontro conservo di Berra, mi rende i tratti di una personalità complessa, articolata, ombrosa e scintillante, morbosa e passionale, a volte irosa, ma sempre acuta e intellettualmente viva. Scolpita da frasi taglienti, trasferita nella scrittura con una prosa faticosamente prolissa, con lunghi periodi nei quali era facile smarrire il percorso. Ma mai il senso. Personaggio controverso nella vita, più adatto ad ambigue pagine di Gide o Peyrefitte che all’iperbolico immaginario delle cronache sportive. Come suggeriva quella sua rumorosa risata nella quale vibrava più d’una nota nevrotica, quasi d’angoscia repressa.

Nell’aspetto fisico, che il benessere raggiunto nel giornalismo milanese aveva fin troppo arrotondato, non c’era più sembianza di “quell’affamato profugo polacco” ch’era stato agli inizi della sua militanza romana, quando aveva rifondato l’atletica cittadina muovendosi a piedi tra le Terme e la Farnesina. Il sofferto periodo riassunto nel modesto e aulico “Senza cena”. Gli anni della sua militanza ascetica, quello delle mele, nel senso che le mele avrebbero costituito per anni un energetico, ma spartano, sostituto di pranzo e cena assieme. Ogni altra scarsa risorsa destinata allo sviluppo delle sue idee. Ora quello sdrucito impermeabile dalle tasche sformate, e gonfie di tutto, s’era cambiato in un cappotto di vigogna dal collo di pelliccia. Nel viso rotondo, di quel gonfiore che segna chi ama star sveglio di notte, colpivano gli occhiali d’oro alla Bassani e il turgore delle labbra, dischiuse in un respiro quasi affannoso e dal colorito tendente ad un acceso violaceo.

Erano gli anni Sessanta. Gli anni d’un benessere svogliato che spingeva alla pigrizia, sussulti esistenziali che annunciavano gli inganni del Sessantotto. Quando l’atletica pareva ancora la “ragazzina dai capelli rossi” e gli orizzonti della nostra vita di ventenni, o poco più, erano ristretti nel recinto magico dell’Acquacetosa, con la sua pista in terra malandata e gli alti gradoni di cemento, il nostro campo della via Paal.

Berra si è spento nell’agosto del 1998, ucciso dalla solitudine più che dalla paralisi, mentre a Budapest si tenevano gli Europei. Tracciando un epitaffio per quella morte, Oscar Eleni, confratello d’una stessa religione e che gli fu allievo prima che successore alla “Gazzetta”, anche a nome di chi restava (ed erano in molti), assunse un impegno corale e commosso: “Addio, Maestro: sul tuo altare non si poserà mai la polvere”. Un vaticinio dettato dal cuore, ma destinato a non avverarsi.

 

(Questo è solo l’incipit di una storia più ampia, già scritta ma ancora da scrivere, una pagina che ogni tanto riapro per aggiungere qualcosa dei ricordi di un mondo che non c’è più: se un giorno la chiuderò definitivamente, ve lo farò sapere).

 

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