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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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Coppi Fausto

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 Fausto Coppi [1919-1960]
Ciclismo


coppi


(gfc) “Un uomo solo è al comando. La sua maglia è bianco-celeste. Il suo nome è Fausto Coppi”. La voce impostata e vigorosa di Mario Ferretti in quella Milano-San Remo del 19 marzo 1946, dal traballante furgone della RAI parcheggiata sul Turchino, aprì con quelle parole rimaste nella piccola storia del ciclismo il secondo dopoguerra dello sport italiano. Coppi non era ancora il “Campionissimo”. Era rientrato da pochi mesi dalla prigionia in Nordafrica e l’aveva rintracciato a Caserta il giovane Gino Palumbo che l’aveva segnalato sul “Roma”: il vincitore del Giro del 1940, e il detentore del record mondiale dell’Ora, era uscito vivo dalla grande ecatombe e faceva l’attendente a un tenente inglese della RAF.

Fausto Coppi aveva ripreso a correre in bici nel febbraio del 1945, mentre l’Italia pativa gli ultimi tragici sussulti della guerra civile. “Era tornato dalla prigionia legnoso, scorbutico, bizzarro”, ma in quel giorno di San Giuseppe arrivò a San Remo 14’ minuti prima del francese Tessaire, 18’ e mezzo prima di Bartali. Da allora in poi, per oltre un decennio, Fausto Coppi e Gino Bartali “penetrarono nei sentimenti degli italiani con una profondità che la loro bravura sportiva non basta affatto a spiegare”.

Personificando anche le laceranti passioni politiche del tempo, il giovane Coppi trionfò nell’ultima competizione sportiva dell’Italia monarchica; il “vecchio” Bartali (ma era solo di cinque anni più anziano) vinse il Giro d’Italia pochi giorni dopo la proclamazione della Repubblica. Ormai, non correvano più con la stessa maglia. Coppi aveva vinto il Giro nel 1940, debuttando proprio come gregario di Bartali alla Legnano governata da Edoardo Pavesi, al termine di una lunga fuga proprio sull’Abetone – la casa del suo capitano – in una Firenze-Modena. Era poi arrivato in maglia rosa all’Arena nel primo pomeriggio del 9 giugno. Il giorno seguente – dal balcone di Piazza Venezia – Mussolini annunciava l’entrata in guerra dell’Italia.


Proprio la guerra gli avrebbe portato via cinque anni pieni, quand’era al massimo del vigore atletico. Era stato chiamato alle armi col 38° Reggimento di fanteria della Divisione Ravenna, caporale della terza squadra. Inviato in Africa, era stato fatto prigioniero dagli inglesi a Capo Bon. Internato il 17 maggio del ’43, aveva potuto tornare in Italia solo il 3 febbraio del 1945. Quella Milano-San Remo del 1946 lo compensò, però, di tutto, lanciandolo verso una carriera entrata nella leggenda. Angelo Fausto Coppi era nato a Castellania, piccolo paese a 380 metri di quota in provincia di Alessandria, alle ore 17 del 15 settembre del 1919. Figlio di Domenico e Angiolina, era il quarto di cinque fratelli: Livio, Dina, Maria e Serse, il più piccolo.

Garzone di salumeria a Novi Ligure, Fausto aveva cominciato a correre in bicicletta quando suo fratello maggiore gli fece dono della prima bicicletta, quasi un rottame. La prima corsa ufficiale l’aveva disputata il 1° luglio del 1937 sulle strade di campagna che, da Boffalora di Castellania, attraversavano Sarezzano, Tortona, Villalvernia: un esordio sfortunato, costretto al ritiro da una foratura. La prima vittoria, da dilettante, a Castelletto d’Orta. Poi il destino gli fece incontrare Biagio Cavanna, il massaggiatore cieco che aveva gli occhi nelle mani e che ne modellò i muscoli di seta. Quel ragazzo smilzo, con le gambe sottili, lunghe e potenti, il tronco carenato come modellato in una galleria del vento, una capacità respiratoria fuori dal comune e un cuore eccezionale, era nato per correre in bici. E nessuno, nella storia del ciclismo, ai suoi tempi e dopo, seppe farlo bene quanto lui.

Tre anni dopo quegli esordi era già professionista. Dapprima con la maglia verde-oliva della Lagnano, agli ordini del grande Bartali. E proprio come gregario di Bartali aveva vinto – a ventun’anni soltanto – il suo primo Giro d’Italia. Era quindi passato alla Bianchi, nel periodo del suo maggior fulgore, poi alla Carpano e alla Tricofilina, quando il suo nome era più conosciuto delle sue maglie. Quasi all’epilogo della carriera aveva accettato di accasarsi alla San Pellegrino, la squadra che aveva proprio in Bartali il DS. Un ritorno e un presagio della fine della parabola.

Dal 1940 al 1959, il “Campionissimo”, amato ed osannato come pochi altri ai suoi tempi – ancor oggi , a mezzo secolo dalla morte, – per la grandiosità delle sue imprese resta un simbolo dello sport italiano. Nessun altro ciclista, forse ad accezione di Mercx, ha saputo eguagliare la grandezza delle sue imprese, realizzate con la stessa autorevolezza sia sul sul passo che a cronometro, tanto in salita quanto in pista. Il 7 novembre del 1942, sulla pista in legno di un Vigorelli deserto, stabilì un record dell’Ora (45,871 chilometri, poi ridotti a 45,798 da un misurazione più accurata) che doveva resistere per oltre quindici anni, fino a quando venne superato da Anquetil nel 1956. Ha poi conquistato tre titoli mondiali, nel 1953 su strada, nel 1947 e ’49 nell’inseguimento.

Famoso per le sue lunghe fughe solitarie (ha vinto 58 corse per distacco), compì nel 1949 il suo “assolo” più lungo, 192 nella Cuneo-Pinerolo del Giro di quell’anno, concluso con un vantaggio di 11’52” sul secondo. Tra le sue 666 corse disputate da professionista Coppi ha vinto cinque Giri d’Italia (1940, 1947, 1949, 1952 e 1953), due Tour de France (1949 e 1952), tre Milano San Remo (1046, 1948 e 1949), cinque Giri di Lombardia (dal 1946 al 1949 e nel 1954), una Parigi-Roubaix. E poi, in ordine sparso, una Freccia-Vallona e diciotto classiche italiane. A cronometro due GP delle Nazioni, tre GP di Lugano e quattro Trofei Baracchi. Ma anche quattro titoli italiani su strada e cinque su pista. L’ultima vittoria: un Trofeo Baracchi del 4 novembre 1957, in coppia con Ercole Baldini che, da dilettante, aveva appena riportato in Italia il record dell’Ora.

Il grande “airone”, fortissimo e fragile, chiuse le ali per sempre all’ospedale di Tortona, alle 8,45 del 2 gennaio 1960. Diagnosi: febbre malarica perniciosa contratta – per uno strano destino, ancora in Africa – nell’Alto Volta, dove era andato per alcune corse su pista e una battuta di caccia, la sua passione più grande. Lasciò due figli avuti da due donne diverse, la moglie Bruna e la misteriosa “Dama bianca” Giulia Occhini, per la quale aveva sfidato ogni convenzione, fino al carcere, nell’Italia bigotta e retriva del tempo.

Il “Campionissimo” è sepolto a Castellania, a fianco del fratello Serse che ne aveva seguito le orme, morto prematuramente a Torino, al termine di un Giro del Piemonte, a seguito di una caduta che pareva senza conseguenze.

 

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