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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





Opinioni / L'esplosione dei programmi olimpici

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Sabato 14 Luglio 2012

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Alle ore 21 di venerdì 27 luglio si apriranno i Giochi della XXX Olimpiade. Londra diventerà così la prima città ad aver ospitato per tre volte il maggior evento planetario. Lo aveva fatto nel 1908 e nel 1948, in momenti di grandi difficoltà per l’olimpismo, lo fa ora tra i travagli di una crisi economica (e di valori) senza precedenti. Probabilmente non poteva esserci scelta migliore che affidare questa nuova edizione alla civiltà del paese che ha inventato lo sport moderno. Sarà anche per questo che finora – mentre la fiaccola viaggia verso Londra – non si sono registrati problemi di ordine pubblico (anche se il timore del terrorismo internazionale permane e toglie il sonno agli organizzatori i quali, per ora, hanno schierato per ora 1700 poliziotti). Nulla a che vedere con quanto accadde quattro anni fa in Cina, col tormentato percorso della fiaccola, la repressione in Tibet, la violazione perenne dei diritti civili. Furono allora in molti, una volta spento il fuoco a Pechino, a ritenere che l’intera vicenda olimpica, con la sua filosofia e le sue simbologie, andava riconsiderata.

A cominciare dai programmi che proprio in Cina, con 302 gare (una più di Atene, le stesse di Londra), hanno fatto un passo in avanti sulla strada di un gigantismo senza freno. Tanto che lo stesso CIO ha tentato di piantare alcuni paletti: gli atleti non potranno essere più di 10.500 per edizione, gli sport meno diffusi e praticati andranno esclusi (come è capitato dopo Pechino a baseball e softball). Ma non basta. Resta difficile opporsi alle pressioni degli altri sport che tentano di irrompere sul palcoscenico a cinque cerchi: come il miliardario golf innanzi tutto, ma anche come il rugby (sia pure con squadre ridotte a sette giocatori, una parodia del rugby vero), peraltro già ammessi per il 2016. Pretese rafforzate da che le Olimpiadi, all’inizio degli anni Novanta, si sono aperte a una partecipazione globale, senza più distinzione tra discipline dichiaratamente professionali o falsamente dilettantistiche.

Essere ai Giochi costituisce una garanzia di visibilità e una possibilità di risorse cui è difficile resistere. Vuol dire attrarre investimenti e sollecitare multinazionali, incassando parte degli enormi introiti derivanti dai diritti televisivi che il CIO gira alle federazioni internazionali. Un fiume di soldi al cui profumo nessuno è disposto a sottrarsi. Ma se le grandi reti televisive si azzuffano per sostenere l’intero movimento, è pacifico che pretendano uno spettacolo pensato per il piccolo schermo (c'entrano qualcosa i 12 canali dedicati da Sky a Londra 2012?), arrogandosi in alcuni casi il diritto di determinare gli orari in funzione dei fusi orari. Come è capitato a Pechino con il nuoto, costretto a tenere le sue finali di mattina.

Quindi sport di sempre maggiore resa televisiva e conseguente ampliamento del programma gare. Una logica che ha fruttificato copiosamente. Si pensi che a Roma 1960 le prove da medaglia erano 150, come dire meno della metà di oggi. Sono così entrati nei Giochi discipline sconosciute ai più, o con una diffusione contenuta se non marginale: badminton, beach-volley, taekwondo, triathlon. Si è invece dibattuto a lungo se escludere il pentathlon moderno, sport codificato dallo stesso Pierre de’ Coubertin, l’icona ottocentesca che sfila ogni quattro anni come il palio del santo che precede le processioni. Il barone aveva pensato la gara articolandola in cinque giorni: troppo complicato per la TV, le cinque prove che la compongono si esauriscono oggi in un paio d’ore. (Le cose vanno ancora peggio nei Giochi Invernali dove l’irruzione delle nuove specialità, le più gradite ai giovani, dallo snowboard al freestyle, ha prodotto per le più tradizionali una crisi di praticanti che pare irreversibile).

Il cedimento alla logica dello spettacolo a tutti i costi ha prodotto i suoi peggiori effetti nella scelta delle gare. Sono così entrati a far parte del programma il nuoto sincronizzato, la ginnastica ritmica, la tavola a vela, il trampolino, le acrobatiche bici Mtb e Bmx, il nuoto in acque aperte, tra meduse e rifiuti galleggianti. Si è dilatato il registro dell’atletica (le donne affrontano oggi le stesse gare degli uomini, si risparmiano solo la 50 chilometri di marcia); si sono ridotte le prove più statiche, come quelle di tiro; si sono compressi i tornei degli sport di squadra, limitandoli (con l’eccezione del calcio uomini) a 8/12 nazioni. A Londra, tanto per non farsi mancare nulla, irrompe il pugilato femminile … Scelte non sempre sostenute da criteri tecnici ineccepibili, sovrastati da esigenze di spettacolo e, perché no, di geo-politica. L’esempio più eclatante viene dal ciclismo su pista: cancellate tutte le prove della tradizione – come il chilometro da fermo o il tandem – sono state introdotte gare di velocità estrema, prove di acrobazia pura con gli atleti che viaggiano tra i 60 e i 70 chilometri orari. Per favorire lo spettacolo televisivo, si è detto, ma con un occhio ammiccante all’allibratore.

Per questo non parrebbe secondario porre mano a una revisione dei programmi e dei criteri di partecipazione, oggi sempre più selettivi, anche per non penalizzare la maggior parte dei 204 paesi (una decina in più che all’ONU …) che sono nel CIO. Ma anche per tenere fede a quanto più volte ha ribadito lo stesso Rogge: “I cinque cerchi rappresentano un insieme di valori universali. Il compito del CIO è sostenerli. Ci sono temi rilevanti da affrontare, ma non c’è nulla che mi spaventi”. Buona fortuna, allora, presidente. Ne avrà certo bisogno il suo successore, già designato da tempo, come accade in tutte le buone monarchie …
 

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