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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
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Carosio

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Nicolò Carosio [1907-1984]

Giornalismo


carosio 

(gfc) “Qui è Nicolò Carosio che vi parla e vi saluta”. Quando la sua voce usciva dalle Radiomarelli o dai grossi altoparlanti sistemati agli angoli delle strade, rotonda, profonda, senza inflessioni, con un timbro a volte metallico e a volte morbido, quasi suadente, frasi scandite con enfasi e a grande velocità, quasi a cascata, milioni di italiani si ponevano in ascolto in assoluto silenzio. Erano gli anni Trenta: nell’Italia di un regime non ancora imperiale, il calcio stava sopravanzando il ciclismo nel favore popolare e quella voce divenne, se non proprio la più nota (ce n’era un’altra, più stentorea, che parlava fin troppo spesso …), certamente la più amata.

Passionale, calda, trascinante come uno squillo di tromba, con una giusta vibrazione epica, quella voce senza volto seppe raccontare agli italiani di allora le vittorie degli azzurri di Pozzo nei due Mondiali del 1934 e del 1938, si commosse e fece piangere per la scomparsa del Grande Torino nel 1949, si arrabbiò in maniera viscerale per le figuracce delle nostre Nazionali degli anni Cinquanta.

Si disse che l’enorme favore popolare che circondò Carosio fosse figlio del provincialismo dell’Italia di quegli anni. Sarebbe più giusto rammentare l’immediatezza con cui le sue cronache concitate trascinassero chi ascoltava agli stessi entusiasmi della folla che li viveva attorno al campo. Così, come pare inopportuno rimproverargli la povertà di commenti tecnici che, per la verità, nessuno gli chiedeva e che, tra l’altro, a pochi interessava e ancora meno avrebbero capito.

Fa parte del mito, da noi largamente coltivato nello sport, quel “quasi rete” gridato quando l’entusiasmo lo portava ad anticipare col cuore la favorevole conclusione di un’azione. Altre volte capitava che indugiasse, compiaciuto, nel cesellare il racconto di un attacco azzurro fino a farsi sorprendere dalla … rete avversaria. Capace, in quei casi, di riprendere senza imbarazzi il filo del monologo, come se nulla fosse accaduto. Ma non c’erano mai rimproveri che incrinassero la complice bonomia che univa Carosio ai suoi ascoltatori. Era uno di loro che raccontava il calcio, così come lo vedeva (o come avrebbe voluto vederlo), con schiettezza e un po’ di quella sana faziosità che non guasta, col cuore ammiccante sempre al successo dei proprio colori, quegli azzurri in particolare. Alla sua morte un giornale scrisse: “Se Vittorio Pozzo fu il creatore della grande Italia calcistica, Carosio ne fu il suo Omero”.

Carosio era nato a Palermo il 15 marzo 1907. Suo padre era ligure d’origine, sua madre una pianista maltese di una certa fama, Josy Holland. E fu proprio alla madre, che l’aveva condotto in Inghilterra, che il giovane Nicolò dovette l’incontro col suo destino, l’incontro che gli cambiò la vita. Un sabato, trovandosi a Londra, gli capitò di ascoltare una radiocronaca calcistica diffusa dalla BBC. Fu un colpo di fulmine, un amore a prima vista, quasi quanto quello per l’immancabile “wiskaccio” con cui avrebbe chiuso le sue trasmissioni.

Il giovane Niccolò prese a inventare radiocronache di partite immaginarie, avventurandosi su sentieri mai prima percorsi da altri in Italia: educò il tono e il linguaggio, sopperì con intuizione e fantasia all’assoluta carenza di esperienza. Studiò uno stile proprio e se ne fece interprete. E così, quasi senza avvedersene, era già pronto quando l’EIAR (l’antenata della RAI) nel 1932 lanciò un concorso per radiocronista sportivo del nascente Ente di Stato. Neanche a dirlo il concorso lo vinse proprio quel venticinquenne, uno spilungone allampanato che s’era preparato per anni a quel mestiere nuovo nell’angusto retrobottega di un negozio di radioamatore, a Venezia.

Così, il 1° gennaio del 1933, eccolo piazzato in piedi davanti ad un massiccio microfono, come avrebbe poi fatto per vent’anni, ai bordi del “Littoriale” di Bologna per un Italia-Germania aperto male da una rete del centravanti tedesco Rohr e chiuso col trionfo di tre reti firmate da Meazza, Costantino e dell’idolo di casa, Schiavio. Dopo l’avvento della televisione, nel 1954, rimase fedele ancora per qualche tempo alla “sua” radio prima di accostarsi al nuovo mezzo. Che però non seppe manovrare e dominare come l’altro.

Anche perché qualcosa si era rotto per sempre nel rapporto col pubblico degli spettatori, fattosi ora più smaliziato e accorto davanti al piccolo schermo. Se ne ebbe la riprova al Messico, Mondiali del 1970, quando nella telecronaca di un deludente Italia-Israele, per un gol annullato a Rivera da un segnalinee etiopico, la sua indole di vecchio tifoso lo fece esplodere con accenti contro l’africano dalla pelle scura che vennero esasperati oltre misura. E così, in omaggio al perbenismo imperante e un po' becero, la sua bella favola si concluse con un malinconico licenziamento da parte della RAI.

L’amica “voce della domenica” si zittì per sempre il 27 settembre 1984 quando la morte lo colse a Milano.

(revisione: 17 Aprile 2014)
 

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