Pullino
© www.sportolimpico.it / Biografie
I quattro della “Pullino” [1925]
Canottaggio
(gfc) Agosto 1928, Giochi Olimpici di Amsterdam. Quando i quattro ragazzi istriani e il loro allenatore-timoniere si affacciarono sulle acque scure dello stretto bacino di Sloten, non c’era proprio alcuno disposto a dare loro credito. E invece proprio a nessuno riuscì di opporsi a quei quattro sconosciuti ventenni di Isola d’Istria che infilarono una vittoria dopo l’altra, fino ad agguantare, da dominatori, la medaglia d’oro nel “Quattro con”. Quel giorno si realizzava il sogno di un minuto e timido impiegato presso l’azienda del gas di Isola d’Istria, ma nativo di Pirano, che tre anni prima li aveva cercati uno a uno e messi in barca e che, ora, di quella barca stringeva il timone, dettandone le palate al ritmo del cuore: col sogno di vincere l’Olimpiade.
Partendo dal nulla, e in pochi mesi di duri allenamenti serali, il quarantenne Renato Petronio era riuscito testardamente a costruire uno dei più solidi equipaggi che il canottaggio italiano possa ricordare. Ma cominciamo dagli inizi. Era il 10 settembre del 1925 quando Petronio aveva lanciato l’idea di fondare ad Isola – “città che vive sul mare e dal mare” – una società di canottaggio, prendendo a prestito il nome dal sommergibile sul quale, a fine luglio del 1916, sugli scogli della Galiola, s’era immolato l’istriano Nazario Sauro e che portava il nome di un altro eroe della Grande Guerra, il tenente Giacinto Pullino.
Come secondo atto aveva individuato i quattro ragazzi che gli occorrevano, quattro figli del popolo, come si diceva: gli agricoltori Nicolò Vittori e Valerio Perentin (che non era neppure il più forte fisicamente, ma al quale venivano riconosciuti i gradi di capovoga), il carpentiere Giliante D’Este e il muratore Giovanni Delise. In quattro non arrivavano a 80 anni e nessuno di loro aveva preso in mano un remo (e che fossero dei neofiti lo dimostrarono all’esordio in acqua, il 18 luglio del 1926, quando si classificarono solo al quinto posto in una gara regionale a Pola). Le prime barche, di seconda e terza mano, vennero acquistate dalla “Canottieri Nettuno” di Trieste: si trattava di due jole di mare a quattro vogatori, “Amerigo Vespucci” e “Mare nostrum”, e due due jole da due, cui vennero imposti i nomi di “Dalmazia” e “Aliento”.
Ma per cullare quei sogni occorreva qualcosa di più. Da qui l’acquisto di “Istria” e di un outrigger da allenamento ceduto dalla “Cerea” di Torino e ribattezzato “Garibaldino”. Tutte mosse ben ponderate, in linea con le modeste disponibilità di Petronio, ma appena sufficienti a fronteggiare la concorrenza di casa: per vincere all’estero occorreva qualcosa di più. Una barca ritagliata su misura sulle caratteristiche del giovane equipaggio che intanto si andava facendo le ossa sui campi di regata nazionali. Petronio aveva in testa un progetto preciso: voleva una barca nuova, progettata – come precisava l’ordinativo spedito per posta – per poter accogliere “quattro vogatori da 70 chili ed un timoniere da 51”. Un gioiello fatto costruire a Livorno dai maestri d’ascia dei Cantieri Carlesi e che, secondo il vezzo di allora, con i ricordi e i lutti di guerra ancora freschi, venne battezzata “Armando Diaz”, dal nome del generale della Vittoria.
Il più era fatto, anche se per arrivare ad Amsterdam gli istriani dovevano ancora affrontare la selezione nazionale di Pallanza, la gara che avrebbe designato il circolo al quale affidare la difesa dei colori d’Italia. Sulla loro strada si parava il formidabile equipaggio della “Argus” di Santa Margherita Ligure dei tre fratelli Ghiardello – Antonio, Mario e Andrea, e con loro ai remi Giobatta Pastine oltre all’esperto timoniere Ugo Giangrande –, gli uomini che nei due anni precedenti, nel 1926 e 1927, avevano stravinto il titolo europeo. E che ora reclamavno l’onore di recarsi in Olanda.
Quella era la regola ferrea della Reale Federazione Canottaggio: niente equipaggi misti ai Giochi o agli Europei, ma solo l’orgoglio dei Circoli, l’uno contro l’altro armati, a disputarsi il privilegio e l’onere di fasciarsi di tricolore. In quella sfida fratricida l’esito finale non fu mai in dubbio: i liguri vennero nettamente battuti e gli isolani partirono alla volta di Amsterdam per il loro esordio internazionale. Mai prima d’allora s’erano misurati all’estero.
Sul canale olandese sferzato dal vento – tanto angusto da ospitare in acqua solo due barche alla volta – i ragazzi della “Pullino” non incontrarono difficoltà alcuna. Dopo aver largamente battuto, e per due volte, la Germania nelle eliminatorie, oltre che stabilito in semifinale il record olimpico (6’43”2/5), nella finale a due si trovarono opposti agli svizzeri. Al via gli italiani lasciarono campo agli avversari, raggiungendoli ai 500 per ritrovarsi davanti di una lunghezza già ai 750 metri. A metà gara, con vento di traverso, il vantaggio era di una barca e mezzo. A quel punto i quattro della “Pullino” dando fondo alle energie incrementarono l’andatura da 38 a 42 battute: a quel ritmo il vantaggio si fece presto incolmabile e all’arrivo si tradusse in almeno quattro lunghezze di luce. Un trionfo.
Un trionfo della scuola italiana, come rilevò Camillo Baglioni, il maggior cronista italiano di canottaggio che di quel successo fu testimone: “Nessuna pesantezza nei movimenti, nessuna esagerazione nel pendolo dei corpi, che tanto dispendio di forza richiede ai vogatori, ma vivacità, scioltezza di movimenti come si addice alla nostra taglia fisica, nella media inferiore a quelle inglesi, americane e germaniche, e però una più rapida azione che supplisce alla minor potenza fisica”. L’anno seguente, a Bydgoszcz, la “Pullino” ribadì la sua superiorità strappando alla “Argus” anche il titolo europeo.
Storie d’altri tempi, si dirà – tanto più che il “Quattro con” è uscito da molti anni dai programmi olimpionici –, ma quasi una favola antica, che però ha un’appendice più recente. Nell’estate del 1975, nessuno sa dire come né perchè vi fosse finita, l’affusolata barca che aveva trionfato ad Amsterdam venne ritrovata – abbandonata e malconcia – in un angolo del porto di Livorno. Da lì, restaurata con amorevoli cure, venne trasportata fino al “Museo del Mare” di Trieste. E ora, lo “outrigger” salvato dall’oblio si culla pigramente sull’acqua dei suoi ricordi e dei suoi trionfi, quasi di fronte a Isola d’Istria che adesso si chiama Izla e non è più Italia.
(revisione: 21 Giugno 2014)
< Prev | Next > |
---|