Frigerio
© www.sportolimpico.it / BiografieUgo Frigerio [1901-1968]
Atletica
(gfc) Le sue gesta sportive e la sua vita le ha raccontate lui stesso nel 1934 in un libro autobiografico dal titolo emblematico (“Marciando nel nome d’Italia”) e che vantava addirittura una presentazione di Benito Mussolini: “Mi è caro prefazionare con queste poche linee – vi si trova scritto – il libro del camerata Frigerio. Egli, carico d’allori degnamenti meritati, non si è insuperbito. È rimasto il Frigerio che io conobbi, figlio di popolo, in uno dei più popolari quartieri di Milano, nei tempi di dura lotta per la Rivoluzione”. Motivi per insuperbirsi Frigero poteva vantarne molti. Aveva appena chiuso l’attività con la conquista a Los Angeles della medaglia di bronzo nella prima 50 chilometri olimpica. Una medaglia che andava ad aggiungersi alle tre d’oro che aveva vinto ai Giochi del 1920 e del ‘24.
Frigerio era venuto alla luce a Milano, il 16 settembre del 1901, da due fruttivendoli che “tenevano negozio in via Tivoli”. Lasciò presto le scuole tecniche per lavorare come apprendista tipografo, un mestiere che lo portò fino alla tipografia della Gazzetta dello Sport. Alla soglia dei diciassette anni, dopo aver visto alcuni marciatori allenarsi sui viali di un parco civico, si iscrisse alla “Unione Sportiva Milanese”, una delle più antiche e paludate polisportive meneghine, avviando una carriera che nell’arco di quindici anni ne fece uno dei più celebrati atleti del proprio tempo. Principiò con la corsa, ma finì per scegliere la marcia cui l’indirizzava l’istinto. Per i successi raggiunti godette di grande favore popolare, sia in Italia che all’estero, seguito sempre con attenzione e simpatia dalla stampa che esaltò il temperamento dell’atleta e magnificò lo stile impeccabile del marciatore. Tra le diverse e luminose epoche della marcia italiana, egli si colloca tra il pioniere Fernando Altimani e il genovese Armando Valente, il cacciatore di record che gli fu degno successore se non rivale.
Quella di Frigerio è stata una carriera precoce e fin troppo rapida. Dopo aver vinto l’anno prima il titolo tricolore sui 10.000 metri, a diciannove anni ancora da compiere si presentò ai Giochi del 1920, prima come alfiere della squadra azzurra, poi come sorprendente protagonista in pista. Ad Anversa, dopo aver dominato la batteria in uno straordinario 47’06”4, si allineò per la finale nella mattinata del 18 agosto. Era tra i favoriti e seppe pienamente rispondere alle attese. In uno stadio quasi deserto prese la testa al decimo giro andando a vincere una inattesa medaglia d’oro, lasciando a quasi 250 metri l’americano Joseph Pearman. Tagliò il traguardo al grido di “Viva l’Italia!”, abitudine cui resterà fedele ogni volta che gareggerà all’estero.
Ecco come ricordò quei momenti sul suo libro, la penna intinta in una ingenua retorica: “Fu per me un attimo d’indicibile orgoglio. Spezzato il filo di lana col petto ansante, presi dalle mani del mio trainer un fazzoletto tricolore che mi porgeva, e agitandolo per un lembo stretto nella mano convulsa, mi rivolsi verso il pennone ove sventolava smagliante ne’ suoi colori il vessillo della Patria e gridai forte a varie riprese il grido ‘Viva l’Italia’”. Neppure affaticato, tre giorni dopo seppe ripetere l’impresa sulla veloce distanza dei 3000 metri sbaragliando l’agguerrita coalizione anglosassone (“vinsi senza fatica, anzi con insperata facilità, la batteria e la finale”). Quelle due clamorose affermazioni ebbero una insolita eco in Italia e gli valsero diverse copertine, e tra quelle una tavola di Beltrame sulla Domenica del Corriere, oltre all’appellativo affettuoso di “Fanciullo d’Anversa”, una etichetta che lo accompagnerà per tutto il resto della vita.
Il pubblico belga rimase ammirato dalle sue caratteristiche stilistiche e dai coloriti risvolti del suo carattere. Non era raro che il giovanotto apostrofasse i giudici, incitandoli a valutare la correttezza dell’andatura, ringraziandoli a gara conclusa. Mentre marciava, non gli dispiaceva motteggiare con il pubblico, sollecitandone a larghi gesti l’incitamento e l’applauso. Prima della partenza dei 3000 metri aveva consegnato al direttore della banda musicale alcuni spartiti di marcette militari pregandolo di suonarle durante la gara. Quando tagliò vittorioso per la seconda volta il traguardo, si esibì in un alcune capriole che suscitarono ilarità nel pubblico ed entusiasmo tra gli italiani presenti. Atteggiamenti che sottolineavano la grande tranquillità del giovanotto e l’assoluta fiducia nei propri mezzi.
Quattro anni dopo, a Colombes, nel programma di marcia figuravano solo i 10.000 metri. Le polemiche sullo stile avevano portato alla soppressione della gara più corta. Dopo qualche tentennamento che aveva fatto temere per un suo ritiro, Frigerio si risolse a scendere in pista per difendere i suoi allori. Malgrado la scorretta andatura di molti rivali riuscì ancora a vincere, impartendo una lezione di stile e di potenza. Dopo il trionfo di Parigi, nell’inverno del 1925 venne invitato a compiere una tournée negli Stati Uniti, dove fu protagonista assoluto in una serie di riunioni al coperto che fecero storia. Dividendo il palcoscenico e il favore del pubblico con il grande Paavo Nurmi, sceso sotto i 45’ sui 10.000 metri e stabilì alcuni record americani al coperto, omologati dalla AAU e rimasti imbattuti per decenni.
In seguito le roventi polemiche che oppenevano, gli uno contro gli altri, atleti e giudici spinsero la IAAF a bandire la marcia dai programmi olimpici, nei quali rientrerà a pieno titolo solo nel 1932, ma limitatamente alla distanza dei 50 chilometri, cimento che a molti pareva ai limiti umani se non oltre. Frigerio volle esserci ancora. Benchè avesse deciso di smettere, riprese gli allenamenti e – malgrado le caratteristiche da marciatore veloce e il caldo feroce che artigliava i polpacci – riuscì ancora a salire sul podio riportando la medaglia di bronzo, due posizioni davanti ad Ettore Rivolta. Era alla sua prima esperienza su quella distanza, uno sforzo che lo lasciò con i piedi piagati e gli costò due settimane di letto. Quella di Los Angeles fu anche l’ultima gara della sua vita.
Sempre poco interessato ai tentativi di record, così popolari ai suoi tempi e il cui principale epigone fu proprio Valente, perseguì con caparbia determinazione solo le vittorie. Nove volte campione italiano dei 10.000 metri su pista tra il 1919 e il ‘31, riuscì a riportare anche due titoli ai campionati inglesi che, al tempo, avevano il valore di una autentica rassegna europea. Nel secondo dopoguerra Frigerio si trasferì a Monza dove gestì per molti anni un commercio all’ingrosso di formaggi. La sua unica figlia non ne seguì le orme nello sport preferendo all’atletica … il pattinaggio a rotelle.
Il “fanciullo d’Anversa” si è spento il 7 luglio del 1968. Già da tempo, la federazione d'atletica - grazie a una sottoscrizione popolare - gli aveva eretto una statua alla Scuola di Formia.
(revisione: 13 marzo 2014)
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