I sentieri di Cimbricus / La nobile dinastia degli 800
Martedì 1° Ottobre 2024
I vichinghi temevano la nebbia: perdevano la rotta e smarrivano il coraggio. E’ capitato anche a me, non è stato piacevole. Ne sto bene o male uscendo e mi accorgo che sono capitate molte cose e altre ne stanno per capitare.
Giorgio Cimbrico
Fra non molti giorni, il 16 ottobre, saranno sessant’anni dalla prima medaglia del Kenya ai Giochi Olimpici: la conquistò Wilson Kiprugut, terzo negli 800 di Peter Snell, al bis, e di William Crothers canadese. Kiprugut corse davanti per 550 metri, coraggioso, scriteriato, disse qualcuno. Il Kenya era indipendente da meno di un anno. Quattro anni dopo finì secondo alle spalle di Ralph Doubell. Tristi antipodi per Wilson, piegato prima da un neozelandese, poi da un australiano.
Nel frattempo, due giorni prima, era arrivato il primo oro, quello di Nafali Temu nei 10.000, nella corsa che divenne incubo e asfissia per Ron Clarke. “Ascoltate – disse Temu con un sorriso malizioso – ora tutti dite che ho vinto perché si è gareggiato a più di duemila metri, come a casa mia. Ma due anni fa sulle 6 Miglia ho battuto Clarke. A quanti metri di altitudine è Kingston?”
SFIDE – Kiprugut è stato il fondatore di una dinastia che, come in tutte le grandi famiglie, presenta intricate ramificazioni (i migliaroli, i saltafossi delle siepi, i grandi crossisti, i maratoneti), ma è la nobiltà degli 800 ad aver offerto e continuare ad offrire il meglio. Mike Boit non riuscì a piantare i suoi impressionanti incisivi sull’oro di Monaco (terzo, nel tumultuoso arrivo segnato dalla rimonta di Dave Wottle e dalla caduta di Evgeni Arzhanov) e così l’onore toccò, nel 1988, a Seul, all’elegantissimo Paul Ereng, nativo di quella regione arida e lunare del nord dove il lago Turkana bolle, circondato dal blu e dal verde delle vene dei minerali.
A seguire, la doppietta Wiliam Tanui-Nixon Kiprotich a Barcellona (“come sarebbe andata l’avevo sognato la notte prima della finale”, raccontò Nixon), il terzo posto di Fred Onyancha ad Atlanta nel più gran mezzo miglio della storia (al cubano Norberto Tellez non fu sufficiente correre sotto 1’43” e togliere il primato nazionale ad Alberto Juantorena per andare sul podio), la rivincita di Wlfred Bungei, allenato da Gianni Ghidini, dopo la delusione di Pechino, il capolavoro londinese di David Rudisha e il suo bis a Rio, il successo di Emmanuel Kirui, allenato da Ereng, e ora un altro Emmanuel, Wanyonyi che a vent’anni appena compiuti entra nella galleria con l’incalzante chance di andare a rilevare il record mondiale dalle mani di re Davis: solo ventun centesimi li dividono dopo una stagione che ha terremotato le liste di sempre.
MURI – La scomparsa di Aleksandr Barishnikov non ha occupato molto spazio, eppure il colosso russo è stato un rivoluzionario al pari di Dick Fosbury. La tecnica rotatoria, inventata con poca fortuna da un lanciatore ceko negli anni Sessanta, ebbe in lui il primo interprete e codificatore e soprattutto l’uomo che seppe toccare, nel’76, la barriera dei 22. Capitò a Colombers, nel luglio del ‘76. Parigi sembra essere un luogo speciale per i muri: i 6.00 di Sergei Bubka, i 2.10 di Yaroslava Mahuchikh hanno avuto come teatri lo Jean Bouin e Charlety.
Barishnikov fu a lungo un moscone bianco: il suo record del mondo venne migliorato, a più riprese, da tre “traslocatori”, o come usa dire adesso, da interpreti del lancio lineare: Udo Beyer, Ulf Timmermann, primo a spingersi oltre i 23, e Alessandro Andrei. Nel ‘90 Randy Barnes, poco prima di esser pizzicato per la prima volta, trovò il “giro” giusto. Oggi la tecnica è adottata da tutti i lanciatori di livello e dalla maggior parte delle lanciatrici. Decathleti ed eptathlete optano per la traslocazione, più semplice e rapida da digerire per chi saltabecca da una specialità all’altra.
STORIE – La scomparsa di Otis Davis, a età assai tarda, riaccende le luci su una miniera di storie concentrate nella finale dei 400 a Roma ’60: Otis, nato a Tuscaloosa, Alabama, lo stato simbolo della segregazione, delle magnolie e dei campioni molto puri (Owens e Lewis un paio di esempi) che abbandona il basket per iniziare con l’atletica a 26 anni, viene derubato delle due medaglie (aveva vinto anche con la 4x400) ma un ladro sensibile le recapita in un sacchetto di carta davanti a un commissariato del New Jersey.
Poi gli altri. Carl Kaufman, tedesco nato a Brooklyn, destinato a diventare tenore e direttore di teatri; il sudafricano Malcolm Spence, ultima medaglia del Sudafrica prima del bando; l’indiano sikh Milka Singh che mette una “taglia” di 200.000 rupie sul suo record, destinato a tener duro per più di sessant’anni. Due uomini a 44”9 (45”07 a 45”08 per Davis), sei sotto i 46”. Altri tempi, altre piste, altre scarpe, altri atleti, altri uomini.
EDERA – Due conti sugli spettatori della Diamond League: oltre 60.000 a Londra, 43.000 a Chorzow, 24.000 al Letzingrund sempre pieno come un uovo, 80.000 a Bruxelles, al “Re Baldovino” per la doppia serata delle finali. I registi non hanno dovuto ricorrere alle furberie di Scapino usate per il Golden Gala inquadrando solo le fettine occupate da un pubblico stimato a quota 15.000 per un meeting che, altra singolarità, finiva alle 23, non al pomeriggio come a Londra o alle canoniche 22.
Si trattava di tenere il pubblico avvinto come l’edera ai 100, impedire che i vuoti diventassero ancora più larghi dopo l’esibizione di Tamberi. Ma a Roma, a parte la Roma, cosa è che piace?
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