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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





Italian Graffiti / Una deprimente storia italiana (e non solo)

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Giovedì 15 Agosto 2024

 

murale-egonu 1

In un paese che ha scelto da tempo di essere cupo e rancoroso, la vicenda post-olimpica di Paola Egonu ha annullato ogni riflessione sull’eredità dei Giochi parigini e le sue belle 40 medaglie. Che pure molto avrebbero meritato.

Gianfranco Colasante

L’argomento occupa da giorni televisioni e prime pagine. Che è successo? Una giovane signora armata di bomboletta – (“una attacchina”, ipse dixit), una maschera a nasconderle il viso, nome di battaglia Laika, come la cagnetta che i sovietici spararono nello spazio (solo coincidenza o vorrà dire qualcosa?) –, disegna e colora un’immagine della pallavolista Paola Egonu sul muro di un condominio dirimpetto la sede delle Federazioni, in viale Tiziano: titolo “Italianità”.

MURALESApriti cielo, e poi con questo caldo … Non tutti convinti, tanto che la mattina seguente si scopre che una mano anonima ne ha ricoperto la pelle di vernice rosa. Ancora qualche ora e un’altra sub-artista interviene in diretta tv (concordata o casuale?) e con pennarello nero ripristina l’opera, per il vero un manufatto non proprio da tramandare ai posteri. Applausi. L’episodio, da qualunque parte lo si voglia guardare, non è proprio edificante anche se non tragico e, quasi ce ne fosse stato bisogno, ha allargato vieppiù le divisioni nel Paese. Buonisti e tolleranti da un lato, beceri e ignoranti dall’altro. Ci vorrebbe Guareschi per riportarci all’umanità positiva di Peppone e Don Camillo.

Ma noi disponiamo solo di Aldo Cazzullo, che per quindici giorni ha martellato da Parigi su accoglienza e tolleranza, “salvifici” messaggi in arrivo dai Giochi (non per nulla è stato proprio l’inquilino della Stanza di Montanelli a far notare che i 27 semifinalisti dei 100 metri erano tutti “neri”: noi non ci avevamo fatto caso e soprattutto non ce ne importava nulla). Ma messaggi che avevano una precisa direzione: quella del razzismo che ammorba e condanna la penisola. Casomai con connivenze nei palazzi.

E qui si innesca il “caso” Egonu, forse meno spontaneo di quanto si possa credere. Per la verità, la storia era cominciata molto prima. Muoveva da una intervista nella quale la ragazza veneta s’era orgogliosamente professata afro-italiana (“canto l’inno di Mameli, ma …”). Concetti ribaditi più volte e rilanciati qualche anno dopo, quando s’era lamentata tra le lacrime: “Sono arrivati a chiedermi perché sono italiana”. Chiudendo con l’abbandono della nazionale. Salvo scoprire di lì a poco che a farle la domanda era stato un giornalista brasiliano. Ma tanto bastò per dare fuoco alle polveri.

A rincarare la dose, venne poi il palco di San Remo da dove – ancora lei – spiegò a una trentina di milioni di spettatori che l’Italia era un Paese irrimediabilmente razzista, se ne facessero una ragione. Tanto convinta e schifata, da andarsene a giocare nella Turchia del dittatore Erdogan (Draghi docet) per poter respirare l’aria pura e rassicurante di quel paese, notoriamente all’avanguardia sul piano dei diritti difesi e garantiti a piene mani a donne e minoranze. Intesi: qui lire turche e euri non c'entrano nulla.

Il resto, il ritorno a Milano alla nuova corte di Alessandra Marzari (una scommessa, quella del volley meneghino, persa anche da Berlusconi), la querela verso il generale Vannacci sulla faccenda dei tratti somatici, archiviata dai giudici, è storia recente. Almeno quanto il rientro in nazionale col saggio Velasco riuscito ad appianare (solo lui sa come …) le tensioni con la russa d’Islanda Antopova: due opposte di ruolo e di carattere portate a vincere assieme l’oro di Parigi. Il seguito è cronaca di queste ultime ore: l’irruzione scomposta e inevitabile della politica, l’immancabile scontro a più voci tra ius soli, scholae, culturae, e via andare, le minacce e le provocazioni, gli insulti e gli sberleffi, le immancabili proposte di legge destinate ad ammuffire nei cassetti. Ma non erano Giochi?

Che resta? Non tanto la faccenda del murale deturpato (e lasciato in eredità ai condomini che dovranno ripulire il loro travertino) – argomento banale e trascurabile in altri lidi, ma da noi tramutato in ricco arsenale da guerra –, quanto proprio le conseguenze che hanno rimesso in moto il feroce dissidio della politica che almeno a Ferragosto si pensava sopito. E cancellato le cento belle storie narrate delle Olimpiadi, sommerse da quel malessere e malanimo che da decenni ci opprime.

Semmai, ci sarebbe da chiedersi, ma me ne guardo bene, come mai – in una squadra olimpica che schierava una quarantina di atleti/atlete arrivati dall’estero o cresciuti in Italia sotto culture diverse – il solo caso denunciato di “razzismo” o di “suprematismo” sia quello di Paola Egonu. O mi è sfuggito qualcosa?

BRAGAGNA – Dopo Parigi e dopo trent’anni, Franco Bragagna (la voix) va in pensione. Lo segnala Aldo Grasso nel suo report da e per i Giochi, il quale – prudentemente astenendosi – rimanda al pensiero critico di Arnaldo Greco: “In un paese da sempre innamorato della retorica vacua e perciò pronto a innamorarsi di ogni retorica e pronto a confondere l’onestà intellettuale e la serietà proprio con la retorica, Bragagna è stata la voce in grado di raccontare la bellezza del gesto atletico e celebrarne la grandezza senza scadervi, nella retorica”. Se vogliamo, una spremuta di retorica pura, con uno spruzzo di piaggeria.

Resta il Bragagna, il suo personaggio, il suo Fan Club un po’ smosciato, la sue debolezze geografiche, le sue arroganze linguistiche: sullo sfondo l’indubbia competenza che non ammette (ammetteva?) contraddittorio alcuno o pur semplice distinguo. Non tutti d’accordo, capita anche nelle migliori famiglie: come sfogo emerge un indispettito “meno male che c’è Discovery”. Come salutarlo? “Nessuna polemica, onore alle armi”, proprio come ha scritto il nostro severo giudice televisivo.

ROMA ‘24 – Qualcuno ricorda ancora che questi Giochi n. 33 arditamente li voleva Roma? O meglio li pretendeva l’irresistibile duo Malagò/Montezemolo, l’accoppiata haute couture che voleva cambiare il volto della Città Eterna, come spergiurava il Corriere della Sera. L’idea era peregrina e non aveva neppure il pregio della novità, ci avevano provato in tanti: bocciati senza appello (peggio di tutti andò a Pescante che ci rimise la poltrona: se vogliamo a Malagò è andata bene).

Ma soprattutto erano assolutamente contrari anche coloro che la città dovevano amministrarla anche nei giorni dispari, in particolare i sindaci, da Ignazio Marino a Virginia Raggi, da fronti opposti sotto una sola crociata. Ve l’immaginate cosa sarebbe capitato? Un villaggio da diecimila letti da costruire ex-novo sui reperti di Saxa Rubra? E altre e varie amenità. (Per chi volesse c’è un libro proprio di Marino che le racconta nel dettaglio).

Anche se oggi alla città non va meglio, sventrata com’è dai lavori per il Giubileo del ’25 come si vuole in alto loco: immagine da cartolina, la gigantesca betoniera precipitata dentro la voragine ch’era venuta a riparare. O lo sconcio senza tempo di Piazza Venezia. E il “sogno” di Roma ‘24? Malagò, bocciato e preveggente, si è rifugiato tra Milano e Cortina, vuol mettere signora mia, …; Montezemolo, più sul pratico, ha accettato la presidenza del consorzio per il sigaro toscano. Ci sarebbe voluto Trilussa per celebrare lo scampato pericolo: “Roma de travertino, rifatta de cartone, …”.

Nel nostro piccolo, a Marino e Raggi erigeremmo due statue allo Stadio dei Marmi con una epigrafe a caratteri latini: “I romani, grati, a imperitura memoria”. Casomai da scoprire all’alba del 2026 …  

 

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