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Piste&Pedane / (6) La sfacciata arroganza della gioventu'

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Mercoledì 7 Agosto 2024

 

furlani-parigi24

Con la migliore serie della vita (due volte 8.34) Mattia Furlani sale sul podio del lungo e porta a casa la prima e pesante medaglia dell’atletica, la numero 26 della spedizione italiana in riva alla Senna. Non era proprio scontato.

Daniele Perboni

Dopo il “falso” bronzo di Nadia Battocletti di lunedì nei 5000, martedì è stato conquistato, un terzo posto vero, autentico, ruspante e ben meritato. La prima medaglia italiana in questi Giochi in riva alla Senna, è arrivata dal salto in lungo, grazie a un giovane ragazzo romano, Mattia Furlani, diciannovenne allenato dalla madre Khadidiatou “Katy” Seck, ex velocista di origini senegalesi, e dal padre con antichi trascorsi nel salto in alto (2.27 nel 1985).

Già secondo agli Europei di Roma, a Parigi – a diciannove anni e mezzo – per pochi minuti ha vissuto l’esaltante brivido dell’oro. Prima chiamata in pedana e subito dalla ricorsa e dallo stacco millimetrico si è capito che stava per succedere qualche cosa di importante. Quando il tabellone luminoso si è acceso sull’8.34/-1,0, a Casa Italia hanno tremato di gioia. Il grosso sospiro di sollievo si è sentito a decine di metri di distanza.

Lo zero nel medagliere forse stava per essere cancellato e con il metallo più prezioso. Dove avevano fallito i veterani di squadra la fortuna aveva propiziato proprio lui, il ragazzo che sin dalle categorie giovanili si era messo in luce, vincendo tutto quello che si poteva vincere, prima nell’alto e poi nel lungo, la specialità del destino.

Ma quando in pedana è sceso il greco Miltiadis Tentoglou, per il secondo turno di salti, il sogno è svanito. Il campione ellenico senza farsi intimidire, dopo una rincorsa velocissima ed uno stacco perfetto è atterrato nella sabbia a 8.48 (vento nullo). A quel punto i giochi sembravano ormai fatti. Il primo e il secondo posto sul podio erano prenotati. Nulla di più sbagliato. Dopo un primo salto sotto gli otto metri il giamaicano Wagner Pinnock ha deciso di fare sul serio, piazzando la zampata a 8.36/-0,2. Da quel momento nulla è più cambiato.

“È incredibile, ci ho creduto fino alla fine – le parole di Mattia – ed è l’emozione più grande della mia vita. A ogni salto l’obiettivo era di andare sempre più lontano, ero convinto che mettendocela tutta sarei potuto arrivare alla medaglia. Sono contento che sia venuta fuori una serie del genere, dal punto di vista tecnico è stata una delle mie gare migliori, in cui ho messo in pratica il lavoro svolto: impressionante per la consistenza, probabilmente non saltavo così bene dalla stagione indoor. Peccato per quei due nulli, ma ... wow! Un giorno indimenticabile, anzi una settimana indimenticabile in cui sono successe tantissime cose. E c’è ancora tanto da sognare con la nostra squadra”.

Un bronzo nella specialità mancava dall’Italia da quarant’anni, esattamente dai Giochi di Los Angeles 1984, quando il padovano Giovanni Evangelisti finì al terzo posto con 8.24/-0,7 a parità di misura con il secondo, l’australiano Gary Honey. Lassù sull’Olimpo stava, inossidabile e imbattibile, Carl Lewis con l’8.54/-1,8 ottenuto al primo assalto. 

Il “piccolo Lewis italiano”, come si era ironicamente soprannominato, il futuro architetto era anche un ottimo partente. Presentatosi ai Giochi con all’attivo due record italiani (8.15 e poi 8.16) aveva dato un aiutino alla sua società, la Pro Patria Pierrel, a vincere la staffetta 4x100, con 39”73 record italiano di società, e il titolo europeo a squadre.

ARESE – Spicchi di gloria, ma solo in chiave nazionale, anche per Pietro Arese, ottavo nella grande finale dei 1500 con il nuovo record italiano (3’30”74), migliorando di oltre un secondo il già suo primato ottenuto a fine maggio a Oslo (3’32”13). 

Il miglio metrico se lo aggiudica il terzo incomodo, lo statunitense Cole Hocker, già argento iridato indoor, con il primato olimpico di 3’27”65, davanti allo scozzese, con maglia inglese, campione del mondo Josh Kerr (3’27”79) e all’altro statunitense Yared Nuguse (3’27”80). Beffato il norvegese Jakob Ingebrigtsen, quarto (3’28”24), che aveva vinto tre anni fa a Tokyo e impostato una gara dai ritmi altissimi, sperando così di asfissiare gli avversari. Tutto inutile, a dimostrazione che anche i “mostri sacri” non sempre sono imbattibili.

 

 

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