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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / Un uomo chiamato coraggio

Lunedì 5 Dicembre 2022

 

murray-h 


A 89 anni se n’è andato anche Halberg, l'uomo coraggio che quel sentimento ha saputo infondere a generazioni di giovani in credito con la sorte. Com'era capito a lui stesso, che da un grave incidente aveva trovato l'oro olimpico.

Giorgio Cimbrico

A Roma il 2 settembre 1960 fu il giorno più luminosamente nero della storia neozelandese: Peter Snell di Opunake diventò campione olimpico degli 800, Murray Halberg di Ekatahuma vinse l’oro nei 5000. L’uno e l’altro erano allenati da Arthur Lydiard: a quel tempo la parola guru non era ancora usata, ma proprio quello era il tecnico che rivoluzionò il mezzofondo, la sua preparazione. Un maestro. 

Peter veniva dal rugby: per quei tempi aveva il fisico adatto per giocare centro. Anche Murray veniva dal “costume” nazionale dei kiwi, ma il gioco gli era risultato fatale: il braccio sinistro era uscito schiantato da un placcaggio rovinoso. Subì cinque operazioni, rimase tre mesi all’ospedale, venne costretto a reinventarsi: persino vestirsi era un’impresa. Quel braccio sinistro era diventato un ramo secco steso su un fianco. 

Murray non si arrese: se gli sport di contatto gli erano preclusi, la corsa poteva diventare la sua dimensione. A 21 anni strappò la selezione per i Giochi del Commonwealth di Vancouver e finì quinto nel Miglio, non un Miglio qualsiasi: il faccia a faccia tra Roger Bannister e John Landy, diventato un gruppo bronzeo e all’origine di una magnifica battuta di Landy: “La moglie di Loth si voltò e divenne di sale, io mi voltai e divenni di bronzo”. 

Ai Giochi di Melbourne Halberg guadagnò la finale dei 1500 e finì settimo. Fu in quel momento che d’accordo con Lydiard capì che qualcosa doveva cambiare: ai Giochi del Commonwealth di Cardiff del 1958 scelse le tre miglia e una condotta di gara coraggiosa e vincente. Non restava che applicarla sul palcoscenico più importante, quello dei Giochi. 

Tre giri alla fine: partì secco e deciso, guadagnò una ventina di metri, si lasciò alle spalle un altro giro in 61”, all’epoca un ritmo inusitato, e a quel punto non gli rimase che recitare la parte della lepre inseguita dalla muta dei cani. Il tedesco (est) Hans Grodotzki e il polacco Kazimierz Zimny si lanciarono alle sue calcagna. La pista in terra rossa trasmetteva quei tump tump come i battiti di un cuore in subbuglio: quei quindici metri di vantaggio rimasti diventarono dieci, otto. Sul filo di lana, che c’era ancora e che Murray tenne stretto tra le dita della mano destra, erano sei. Bastavano. 

Quanto ad immagini memorabili, i 5000 sono sempre stati prodighi: Kolehmainen-Bouin nel 1912, Zatopek-Mimoun-Schade nel 1952, Kipchoge-El Guerrouj-Bekele nel 2003. A Roma il momento che lascia tracce è legato al dopo: Halberg è steso sul prato, in una specie di trasfigurazione. 

Due anni dopo, ai Giochi del Commonwealth di Perth, gli venne assegnato il compito di alfiere della Nuova Zelanda e lui concesse il bis con la sua consueta lunga accelerazione, lasciando a un paio di secondi Ron Clarke, che conquistò una delle poche medaglie di una carriera punteggiata da molti record memorabili e da molte brucianti delusioni. 

Murray chiuse la carriera nel ’64, settimo nei 10.000 di Tokyo, anche in questo caso protagonista di una gara che ha lasciato profonde tracce, la giornata di Billy Mills. Dall’anno precedente si era dedicato ad aiutare i giovani colpiti da disabilità, una missione che lo avrebbe accompagnato per tutta la sua lunga vita e gli avrebbe dato molti e meritati onori. 

 

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