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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
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(le oltre 400 testate dimenticate)





Duribanchi / C'era una volta la Milano della gente

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Martedì 28 Giugno 2022

 

 mialano-da bere 


Omaggio alla milanesità sparita. Se oggi a Milano si vive meglio, per altri si vive estremamente peggio. E non serve osservare che l'imbarbarimento sia ormai diffuso e globale. Servirebbe chiedersi perché si siano chiusi gli occhi.

Andrea Bosco

C'era una volta Milano. Non c'è più. C'era una volta una città magari non bellissima (o che magari solo tale appariva) ma che imparavi in fretta, anche se arrivavi dal “Pesce” più bello del mondo, ad amare. Era una città, quella Milano, ricca di fermenti, di cultura, di gente. Donne e uomini “veri”. Ne avevi letto. E avevi invidiato gli studenti di quel liceo che avevano prodotto il giornaletto La Zanzara. Che anticipando i tempi aveva prodotto scandalo in tutto il Paese. Era la città dei giornali. Dell'inarrivabile quotidiano di Via Solferino e di quelli più accessibili nel Palazzo della stampa in Piazza Cavour.

Era la città della RAI in Corso Sempione dove realizzavano i quiz di Mike e la “Domenica Sportiva”. Era la città delle case editrici: Feltrinelli, Mondadori, Rizzoli, Rusconi. Era la città della musica e degli artisti. Di Maria Callas, di Lucio Fontana. Era la città della Scala e del Piccolo Teatro. Era la città del “Derby” e della taverna in Via Morigi dove cenavi con pane e salame magari accanto al tavolo di Cochi e Renato o di Enzo Jannacci. Era la città del Vigorelli e degli eroi della pista. Era la città delle università, dello stadio di San Siro dove sgambettavano con maglie diverse Mariolino Corso e Gianni Rivera.

Era la città delle “scarpette rosse” di Adolfo Bogoncelli, Cesare Rubini e Sandro Gamba che tiravano a canestro al Palalido. Era la città dei ristoranti toscani e pugliesi che facevano concorrenza alla “orecchia di elefante” del Brelin in Vicolo Lavandai, sul Naviglio. Era la città del Capolinea in via Ludovico il Moro dove si ascoltava il jazz: non solo gli interpreti migliori del jazz. Si ascoltava il Jazz. Era la città del Pirellone, quello de “La vita agra” che l'anarchico di Bianciardi avrebbe voluto far esplodere. Era la città del pugilato. E l'Ippodromo non era solo un luogo dove gareggiavano cavalli e fantini. Era la città del Portello e dell'Alfa Romeo dove Luchino Visconti aveva ambientato la scena finale di “Rocco e i suoi fratelli”: un grande prato spoglio. Era la città di Celentano e Giorgio Gaber.

Era la città dei tram gialli e dei taxi verdi: era la città della Metropolitana Rossa, all'interno dei vagoni della quale sentivi parlare veneto e siciliano, campano e pugliese. Ma soprattutto meneghino. Era la città dove in Galleria potevi sorseggiare un aperitivo da sogno e da Brigatti acquistare le esclusive cravatte inglesi che producevano a Londra. Era la città della Triennale. E una volta l'anno di una fiera, dalla parti di via Mulino delle Armi, dove incrociando varia umanità potevi scovare sulle bancarelle anche qualche piccolo dimenticato tesoro. Era la città della Pinacoteca di Brera, con i suoi studenti dell'Accademia delle Belle Arti. E del Cenacolo Vinciano al quale si poteva accedere solo con speciali permessi. Non eri arrivato con la valigia di cartone. Ma mai avresti ipotizzato di andare nel tempo ad abitare a pochi metri da Santa Maria delle Grazie.

Oggi quella Milano non esiste più. L'hanno resa più efficiente, l'hanno fatta diventare “alta” come New York. L'hanno modernizzata, l'hanno migliorata nei servizi, l'hanno aperta ad un turismo che non esisteva. La Moda, le grandi griffes, l'hanno resa una attrazione mondiale. Via Montenapoleone oggi gareggia con Via Della Spiga con inarrivabili oggetti del desiderio. Ma l'hanno anche banalizzata, barbarizzata, involgarita. Mitradizzata con millanta bar e dehors: tutti eguali all'insegna dell'apericena e della musica a palla. La Metropolitana non è più solo rossa: è verde, gialla, lilla. Arriva quasi ovunque. Ma nei suoi vagoni non senti un cane che parli milanese. Senti tutte le lingue del mondo. Una umanità destinata alla deformazione della colonna vertebrale: ripiegata sul proprio smartphone. Ignara e inconsapevole di quanto accade nei suoi dintorni. Se un'anima gentile impietosita per i tuoi troppi anni si alza per cederti il posto è quasi sempre una donna o un uomo che hanno un colore della pelle diverso dal tuo.

C'erano le periferie, in quella Milano. Dove si viveva di espedienti, dove spesso i “pali” delle bande dell'Ortica passavano da una casa alveare, al Quattro Stelle di San Vittore cantato da Ornella Vanoni. C'era la miseria e anche il razzismo. Non si affittava ai “terroni” in quella Milano. Ma non c'erano i termitai dove oggi si spaccia, si danneggia, si ruba, si violenta, si picchia, si disprezza il prossimo. Solo perché il prossimo esiste.

Quella Milano socialista aveva un'anima solidale alle Stelline, ai Martinitt, alla Baggina e nei preti di “strada” alla Don Mazzi. I sindaci erano amati perché “milanesi”. E anche se venivi da un'altra città lo avvertivi: lo percepivi anche senza andare alla sede del partito di quei sindaci in Corso Magenta. Che era zona popolare prima che il “cambiamento” la trasformasse in zona residenziale. Era ancora lontana la “Milano da bere”. Era lontanissima quella della Skyline: in quella fetta di città c'erano le Varesine, le giostre.

Oggi a Milano per molti versi si vive meglio. Ma per altri si vive estremamente peggio. E non serve osservare che l'imbarbarimento sia ormai diffuso e globale. Servirebbe chiedersi perché a Milano si siano chiusi gli occhi. Anche in chiesa, anche in Duomo. Anche (come segnalato da Isabella Bossi Fedrigotti nella sua rubrica “Alto&Basso” su Il Corriere della Sera la lettrice Mariagrazia Cosuelli) al Piermarini. Stupefatta che alla Scala di Milano si possa ormai accedere in pantaloni corti, in reggiseno, in canottiera ed infradito. E' necessario “concedere” per riempire una platea o i banchi davanti ad un altare? Il lassismo ha schiacciato la decenza? Ha spiegato Bossi Fedrigotti (senza giustificare) che oggi anche molti direttori d'orchestra dirigono in “pigiama nero” piuttosto che costretti nel canonico frac. E ha ragione Isabella: i direttori “ginnasti” dell'ultima generazione hanno bisogno di mobilità nei movimenti. Forse per mancanza di autorevolezza. Ad Arturo Toscanini bastava la flessione del polso per dirigere (e terrorizzare) con la sua bacchetta, l'orchestra.

Alla fine è sempre una questione di scelta. A Venezia, all'Harry's Bar, da tempo immemorabile Arrigo Cipriani respinge gli avventori in infradito. A Venezia, come a Milano, la questione è di scelte. A Milano dove ancora stanno “ponzando” sul destino del nuovo stadio. Che forse (anzi, quasi certamente) non verrà realizzato in zona San Siro, ma a Sesto San Giovanni. Niente “Cattedrale” ma un progetto firmato da Norman Foster. Destino del Meazza: “Quien sabe?” direbbe il peon Volontè del celebre film firmato da Damiano Damiani.

E' sempre una questione di scelte. Anche se l'Hortensio di Shakespeare, ne “La bisbetica domata”, vi spiegherebbe che “c'è poco da scegliere frammezzo alle mele marce”. Ogni riferimento a fatti e persone reali è, ovviamente, casuale.

 

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