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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





Fuorionda / Chi e' senza peccato scagli la prima pietra

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Mercoledì 25 Maggio 2022

 
         sinner

Money, money, money cantavano gli Abba qualche anno fa. L’età dell’innocenza, purtroppo, nello sport è finita da un bel po’. Ma ora si sta andando oltre: che dire dei 418 miliardi di dollari pagati dalle tv per Tokyo 2020?

Gianluca Barca

“Ohibò…!” direbbe perplesso Carlo Airoldi, uscendo in questi giorni dalla tomba dove riposa dal 1929. Alla Milano-Barcellona del 1895, gara di marcia in dodici tappe, il podista Airoldi, vincitore, fu premiato con 2.000 pesetas, circa 300 euro al valore di oggi. La scorsa settimana Yannick Sinner, tennista altoatesino di vent’anni, ha firmato con la Nike un contratto del valore di 150 milioni di euro per i prossimi dieci anni. Times they are a changin’ cantava Bob Dylan.

Ma da Airoldi a Sinner, lungo più di un secolo di storia, lo sport è sempre stato, ora più ora meno, una questione di denaro. Con una differenza: ad Airoldi, quelle 2000 pesetats costarono l’iscrizione alle Olimpiadi di Atene: fu considerato un professionista ed escluso dalla gara. Sinner, la scorsa estate, ai Giochi di Tokyo ha rinunciato per scelta propria.

Al Comitato feci valere le mie ragioni – scrisse Airoldi su La Bicicletta –, dicendo che in Italia lo sport pedestre non è sviluppato abbastanza per poterlo fare di mestiere, e che il denaro che presi a Barcellona fu una regalia del Municipio, come si è fatto per il vincitore della Maratona, ma tutto fu inutile”.

Sinner invece, un anno fa, commentava così il suo olimpico forfait: “Rappresentare il mio Paese è un privilegio ed un onore e spero di poterlo fare per tanti anni – disse – La decisione è stata dettata dal fatto che non ho giocato il mio miglior tennis durante gli ultimi tornei e devo concentrarmi sulla mia crescita”. 

La crescita, soprattutto quella del portafoglio, si è senz’altro realizzata con successo. Il desiderio di rappresentare il Paese, detto sottovoce, sarebbe meglio espresso invece pagando le tasse in Italia, piuttosto che a Montecarlo, dove il giovane tennista risiede in compagnia di tanti altri sportivi suoi pari.

Pochi giorni dopo l’annuncio del contratto Nike/Sinner, il calciatore francese Kylian Mbappé ha comunicato di aver prolungato il suo accordo con il PSG per la cifra di 50 milioni all’anno per i prossimi tre anni più, pare, un altro cospicuo gruzzolo (120 milioni) alla firma del rinnovo.

 

La notizia ha scatenato la protesta della Liga spagnola: “La Liga vuole affermare che così si minaccia la sostenibilità economica del calcio europeo, mettendo a rischio centinaia di migliaia di posti di lavoro e nel medio periodo l’integrità sportiva, non solo delle coppe europee, ma anche dai nostri campionati nazionali.

Bene, bravi, bis: peccato che una delle squadre di punta della Liga, il Real Madrid, avesse offerto al PSG 200 milioni per rilevare l’ultimo anno di contratto del giocatore. La favola della volpe e l’uva si riperpetua dai tempi di Fedro senza mai apparire superata.

Money, money, money cantavano gli Abba qualche anno fa. L’età dell’innocenza, purtroppo (per qualcun altro, per fortuna), nello sport è finita da un bel po’.

Negli anni Cinquanta, in Inghilterra, i giocatori di calcio si pagavano le scarpe, anche se qualche club offriva di contribuire alla spesa accollandosene il 50%. Parliamo di un’epoca in cui lo stipendio massimo di un calciatore era fissato dalla Football Association in 20 sterline alla settimana (circa 35 mila lire dell’epoca). Un tetto salariale abbandonato in UK nel 1961. I ruggenti anni Sessanta abbattevano le barriere.

Proprio nel 1961, l’Inter prese in contropiede il mercato offrendo 1,2 milioni di marchi (pari all’epoca quasi 200 milioni di lire) per l’ingaggio del capitano della nazionale tedesca Uwe Seeler. La notizia suscitò tale furore in Germania che lo stesso sindaco di Amburgo scrisse personalmente al giocatore perché “pensasse bene a ciò che faceva”.

Alla fine la faccenda fu risolta da Adi Dassler, il fondatore della Adidas, che per convincerlo a restare in patria offrì al centravanti dell’Amburgo la rappresentanza del marchio nel nord della Germania. A quel tempo le calzature Adidas si vendevano praticamente da sole, il che rendeva la proposta da Dassler particolarmente appetitosa per Seeler.

Non era più così, però, a metà degli anni Settanta, quando per parare la concorrenza in USA della Converse, la Adidas fu costretta a ingaggiare Kareem Abdul Jabbar, primo giocatore di basket a firmare per la casa tedesca. Per calzare le Superstar Jabbar siglò un contratto di 25 mila dollari all’anno, corrispondenti a ventuno milioni di lire di allora (la Ferrari 365 Gtb, ne costava undici). In breve tempo il basket divenne il 10% delle vendite dalla Adidas in America.

Nel frattempo sul mercato si era affacciata la Nike, quella che oggi punta 150 milione di € su Sinner.

Fondata nel 1964 a Portland, nell’Oregon, la Nike si avvicinò al tennis nel 1972 offrendo 5 mila dollari a Ilie Nastase per giocare con un paio di scarpe che sul tallone portavano il ricamo “Nasty”, il soprannome affibbiatogli dalla stampa e dagli avversari. Jimmy Connors accettò gratis di indossarne un paio marchiate “Jimbo” sulla tomaia. Per dire quanto ancora naif fossero gli sportivi all’epoca. Non tutti sia chiaro: Stan Smith, nonostante la vittoria a Wimbledon (1972) e agli US Open (1971) è diventato più famoso per le scarpe da tennis che portano il suo nome che per i risultati conquistati sul campo, dove in 17 anni di carriera ha guadagnato 1,7 milioni di dollari, probabilmente assai meno di quanto abbia incassato dalle royalties (mai rese ufficiali) di oltre 100 milioni di paia di sneaker “Stan Smith” vendute dalla Adidas in ogni dove.

In quegli anni il marketing sportivo cominciava a muovere dalle piste e dagli stadi alle strade.

Quando la Nike, nell’aprile del 1985, lanciò le Air Jordan il basket rappresentava il 60% delle sue vendite in America. Jordan aveva firmato per il marchio di Portland per la cifra record di 500.000 $ all’anno, più royalties e percentuali sulle vendite di tutti gli articoli che portavano il suo nome, fino a una cifra potenziale di 2,5 milioni di dollari. Se la partnership non avesse portato a vendite per 4 milioni di dollari entro la fine del terzo anno di contratto, l’accordo poteva essere rescisso.

All’inizio le scarpe vennero vietate dall’NBA perché i colori, rosso e nero, erano troppo diversi da quelli delle calzature, per lo più bianche, indossate dalla maggior parte dei giocatori. Ciononostante, nel primo anno dopo la loro messa in commercio, le Air vendettero per più di 100 milioni di dollari, accelerando la diffusione del marchio nella vita di tutti i giorni dei giovani.

Nel frattempo la televisione riscriveva le regole dello sport diventando la prima fonte di finanziamento di tutti i grandi avvenimenti internazionali.

A Tokyo, nel 1964, la NBC aveva pagato 1,5 milioni di dollari per assicurarsi i diritti di trasmissione dei Giochi sul territorio americano. A Montreal nel 1976 l’ABC era arrivata a 25 milioni (più 9 da parte dell’Eurovisione).  Per Tokyo 2020 l’NBC ha pagato 418 miliardi di dollari. Miliardi, avete letto bene. Forse è ora di smettere di credere a tutti coloro che vi dicono che lo sport è un gioco.

Ah dimenticavo: sinner in inglese significa peccatore. Lo Yannick monegasco nella storia d’Italia non è il solo.

 

 

 

 



 

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