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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / Quando si sfondano i cancelli del cielo (2)

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Sabato 21 Agosto 2021


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Seconda e ultima parte del viaggio tra le gare che hanno riscritto la storia delle loro specialità. Da leggere e conservare, per chi non c'era e non l'ha mai saputo e per i più maturi che volessero rinfrescare ricordi ed emozioni.

 

Giorgio Cimbrico

• I 1500 di Christchurch ‘74

Gli anglosassoni hanno un efficace modo di dire: from gun to tape. Traduzione: dal colpo di pistola al traguardo. Per interpretare così una distanza del mezzofondo è necessario essere molto forti o molto matti. Il 2 febbraio 1974, allo stadio Regina Elisabetta II di Christchurch, Nuova Zelanda, la finale dei 1500 dei Giochi del Commonwealth è l’avventura coraggiosa e solitaria di Filbert Bayi, tanzaniano leggero come una piuma, elegante come un impala, nato quando il suo paese si chiamava ancora Tanganyka.

Filbert corre il primo giro in 54”9 e gli altri lo guardano da lontano: “Cosa sta facendo?”. Sette anni prima, quando al Coliseum di Los Angeles, Jim Ryun aveva cancellato Herb Elliott e dato una sonora lezione a Kip Keino, il giovanotto di Wichita era passato in poco più di un minuto. In una sovrapposizione virtuale, Jim guadagna su Filbert nel secondo giro (55”5 a 57”3), ed erode qualcosa nel terzo: 58”0 a 58”6. ll momento dell’impressionante crescendo di Ryun, 53”3, corrisponderà al crollo di chi ha osato troppo? In realtà Bayi non ha ancora il serbatoio vuoto, ma intanto da dietro si stanno muovendo: l’immagine è quella della volpe e della muta.

John Walker, purosangue dalla gran criniera cresciuto a Papakura, lancia l’assalto, rimonta, guadagna, divora l’ultimo “quarto” in 54”4. Filbert in un secondo di più, sufficiente per strappare titolo “imperiale” e record del mondo: 3’32”16 contro 3’32”52 del neozelandese. Primo e secondo di sempre. Ben Jipcho, che di Keino era stato magnifico gregario a Città del Messico, è terzo in 3’33”1 (3’33”16) e eguaglia Ryun, l’altro kiwi Rodney Dixon è quarto in 3’33”89 e il quinto, l’australiano Graham Crouch, in 3’34”22 priva Elliott anche del record nazionale. I 1500 entrano in una nuova dimensione. Anche di massa. (Foto, da sinistra: Walker, Filbert Bayi che copre Jipcho, Dixon e Crouch).

• I 200 di Atlanta ‘96

“E’ stato come la prima volta che scesi giù per la collina vicino a casa, su un carrettino che papà aveva costruito per me”, raccontava Michael Johnson quella sera del 1° agosto di venticinque anni fa dopo i 91 passi che cambiarono i 200. “A me quel tempo non sembra neanche vero”, disse Ato Boldon che s’inchinò davanti al sovrano. Doveva essergli grato: seguendo da lontano la scia (Swooosh, titolò il giorno dopo l’Atlanta Examiner) aveva conquistato un posto sul podio, terzo, ed era diventato il settimo di sempre.

Tra Michael di Waco e Ato di Porto of Spain, Frank Fredericks, namibiano di Windhoek, piazzato di extralusso nelle occasioni importanti. In quei momenti pochi si accorsero che aveva corso in 19”68, scavalcando Pietro Mennea che dal vertice era sceso quaranta giorni prima: la pista dei Giochi per i Trials e per il 19”66 che chiudeva un regno durato quasi 17 anni. Quello europeo tiene da quasi 42.

Il progresso risultò fragoroso, 34 centesimi in una botta, dopo due metà in 10”12 e 9”20. Fredericks aveva resistito in curva (10”16) ma era stato travolto sul rettilineo: 32 dei 36 centesimi di distacco vennero accumulati in quel tratto. “Dopo esser sbucato dalla curva sentii che mai nella vita avevo corso così veloce”, confessò Michael che sul podio concesse una lacrima, una sola ma gigantesca. Meno di un mese prima, il 5 luglio, sulla curva non agevole del Bislett, Fredericks aveva fermato a quota 21 la sua striscia vincente piegandolo 19”82 a 19”85, ma ad Atlanta andò a cozzare contro chi aveva deciso di diventare l’uomo dei Giochi, il primo a centrare la doppietta 200/400 concedendo a Carl Lewis solo un angolo di commozione per il suo lungo poker vincente.

• Gli 800 di Londra 2012

Dicono che quella sera, prima di partire, David Rudisha abbia detto al 18.enne Timothy Kitum, alla fine medaglia di bronzo con un tempo straordinario: “Non venirmi dietro, rischi di farti male”. David sapeva di dover rendere meno affilati i “pugnali” di due giovanotti, del ’94 pure loro, l’etiope Mohammed Aman e Nijel Amos, del Botswana, un tempo Bechuanaland, fresco campione mondiale juniores e già capace di correre in 1’43”10.

L’ordine di battaglia prevedeva un primo 200 velocissimo, una conservazione della velocità sino alla campana, un terzo tratto che ripetesse a palmi il secondo, un ultimo segmento in cui dar fondo a quel che rimaneva. Obiettivo: conquistare l’oro olimpico e portare il record del mondo nell’orbita dei 100 secondi. I Giochi come un meeting, ma senza lepri, O meglio, con Rudisha lepre di se stesso, cacciatore di nuove frontiere. E, considerato l’esito, scanditore di ritmo per tutti gli altri.

David offrì un’andatura di un’eleganza, di una centralità tali da impedire di comprendere quale velocità riuscisse a sviluppare. Lo urlò uno degli speaker, lo segnalò uno dei tabelloncini sull’erba: 23”19 ai 200, una dolce distribuzione di soffuse sberle e l’obbligo per gli altri di alzare il numero dei giri. Campana, passata in 49”28, e David imperturbabile, senza degnare di attenzione un tentativo di affiancarlo del sudanese Abubaker Kaki prima e di Aman poi. Ruggiti e fremiti del pubblico quando il passaggio ai 600 annunciò 1’14”30. A quel punto doveva solo riscuotere e portare il record a 1’40”91. Amos, il ragazzo dell’Africa australe dalle braccia agitate come disordinate ali, si lanciò in un serrate uguagliando al centesimo, 1’41”73, il vecchio mondiale fiorentino di Sebastian Coe, deus ex machina dei Giochi, quella sera estasiato per l’esaltazione della distanza più amata. Il resto dei tempi costituiscono una sinfonia londinese: Kitum terzo in 1’42”52, l’americano Duane Solomon quarto in 1’42”82, l’altro americano Nick Symmonds quinto in 1’42”95, Aman sesto in 1’43”20, Kaki settimo in 1’43”32, il britannico Andrew Osage ottavo e ultimo in 1’43”77.

La celebrata finale di Atlanta, quella della vittoria del norvegese Vebjørn Rodal, con quattro sotto l’1’43”, venne spazzata dalla Corsa di Rudisha il masai. La più grande gara nella storia nobile del mezzo miglio, dedicata a Daniel, il padre, argento nella 4x400 a Mexico ’68. Un patrimonio di tutti, ora simbolo storico di un’età, gli Anni Dieci del XXI secolo.

• Il peso di Doha 2019

Una partita a bocce degna di quella che Francis Drake volle terminare prima di andare a fermare l’Invencible Armada. Quella di posizione è piazzata, sin dall’avvio e a 22.90, da Tom Walsh, ex-muratore, neozelandese di Timaru, terra di rugbysti e di giocatori di cricket. Comanda così a lungo che pensa persino di avercela fatta.

Joe Kovacs, radici ungheresi, nato e cresciuto in Pennsylvania, orfano di padre sin dalla prima adolescenza, si è trasformato, in anni di lavoro, gli ultimi a fianco della moglie Ashley, in un mortaio umano: 134 chili montati su 183 centimetri. E’ quarto e ha un lancio, l’ultimo: piazzamento e botta. La palla da sedici libbre va a 22.91, 75 piedi e due pollici, uguagliando il picco di Alessandro Andrei a Viareggio 1987. Terzo di tutti i tempi alla pari con il fiorentino.

Ryan Crouser, il gigante dell’Oregon, ultimo arrivato di una progenie che lancia di tutto e piuttosto lontano, campione olimpico a 23 anni, cerca e scova il meglio: a occhio, è lo stesso lancio di Kovacs. No, è un centimetro di meno. Walsh scrolla la testa e chiude con il quarto nullo della sua serie che, dopo l’acuto, poggia su un 22.56 che non basta per finire secondo. Crouser ha un 22.71 che spenna il kiwi. Tre in un centimetro, in una specie di muscolare volata e per occupare la terza e quarta, entrambe ex aequo, posizione di sempre. Da quel giorno Crouser ha guadagnato quasi mezzo metro. Se Joe è un mortaio, Ryan è uno di quei cannoni che da cento chilometri sparavano su Parigi.

 

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