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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

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I sentieri di Cimbricus / Il cortinese che ha domato il K2

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Mercoledì 3 Febbraio 2021


k2


“Achille e Lino hanno portato con loro un segreto: di chi fu il primo piede posato sulla seconda vetta del mondo? “Siamo arrivati assieme”, fu il refrain offerto per mezzo secolo.”

Giorgio Cimbrico

Per i prossimi giorni si parlerà molto di Cortina. Prima che Cortina venisse invasa dai ricchi e diventasse quel che è diventata, c’era un’altra Cortina, quella degli ampezzani che odiavano i cadorini (“xe mejo un asasin che un cadorin”), quella di Lino Lacedelli che lì è nato, vissuto e morto dopo quasi 84 anni. Febbraio 2006, poco prima delle Olimpiadi di Torino: la fiamma sta già correndo per l’Italia. Telefonata a casa Lacedelli, risponde la moglie: “Lino non c’è, è fuori ad allenarsi. Ha una testa, lui”.

Più tardi risponde Lino: “Ho fatto il tedoforo cinquant’anni fa, per le Olimpiadi della mia valle, a Cortina, le prime in Italia. Mi hanno chiesto se volevo fare il bis, ho detto di sì. E così ho fatto una mezz’oretta di corsa. Fa un bel freddo, è un piacere”. Lino, vecchio fusto, aveva ottant’anni compiuti. Tre anni dopo, cuore malandato, un’operazione, l’attesa per una ripresa che non arriva. Sempre vissuto sotto e sopra le sue Dolomiti: la montagna è come il mare. Impossibile distaccarsene, lasciarla alle spalle. Chi ci riesce, non ha cuore, non ha testa.  

E così, in meno di sei mesi se ne andarono tutti: a 94 anni Achille Compagnoni, che sul ghiaccio si trovava come a casa sua e che, per disciplina maturata in tanti anni da alpino, riusciva a obbedire, sino in fondo, agli ordini del piccolo generale Ardito Desio; Riccardo Cassin, che con quei suoi 100 anni era il patriarca dei rocciatori, il re della Grigna e poi del Gasherbrun, e che da quella spedizione venne scartato perché, per carattere, inclinazione, idee, era l’unico che avrebbe potuto tener testa all’autorità (e all’autoritarismo) di chi aveva in pugno il segno del comando.  

E poi toccò a Lino, che con Achille arrivò in cima agli 8611 metri del K2, la seconda montagna della terra. Era il 31 luglio 1954, poco più di un anno dal prodigio di quel neozelandese alto e nodoso come un tronco battuto dal vento Edmund Hillary, che aveva offerto il colosso come dono di incoronazione a una giovane Elisabetta.  

Achille valtellinese era il vecio, Lino cortinese il bocia, nemmeno 29 anni, uno scoiattolo che da ragazzo affrontò di un fiato le verticalità delle Cinque Torri. Il padre mimetizzò il suo timore con un’arrabbiatura solenne, ma contro il fato era impossibile battersi: Lino era fatto per quello, arrampicarsi. Uno da cuore nella roccia e “uno dei più grandi”, lo ricorda Reinhold Messner. Semplice e magnifica formula: inutile ricorrere alle parole vuote quando di mezzo ci sono uomini memorabili, le loro imprese, la verità.  

Lino, che aveva una stretta di mano ferrea, la disse tutta, sino in fondo, spazzando la nuvolaglia che Desio aveva appiccicato sull’impresa (nella relazione finale manco aveva parlato dell’uso di bombole), riabilitando, se ce n’era bisogno, la versione di un giovane Walter Bonatti (anche lui volato sulla montagna più alta), spedito con l’hunza Mahdi a portare l’ultima scorta di ossigeno prima del balzo finale. Quella notte Bonatti e la guida non trovarono la piccola tenda di Achille e di Lino: il campo 9 era stato spostato più in alto perché l’ultimo tratto, il più impervio, fosse il più breve possibile.  .

Notte terribile, vento incessante (a oltre 8000 metri, un rumore che scuote, un rombo che porta i nervi al limite), trenta gradi sottozero: Mahdi perderà tutte le dita dei piedi. “All’alba trovammo le bombole infisse nella neve”, raccontava Lino. Le trovarono intatte: Bonatti non aveva succhiato neanche una goccia. Sapeva – e, soffrendo, si era rassegnato – che l’assalto finale sarebbe toccato a loro, non a lui. L’asetticità delle cifre del consumo sono alla base dell’unica versione possibile: i due conquistatori ebbero linfa per 9 ore e trequarti. Nessuno aveva rubato o celato nulla.  

Achille e Lino hanno portato con loro un segreto: di chi fu il primo piede posato sulla seconda vetta del mondo? “Siamo arrivati assieme”, fu il refrain offerto per mezzo secolo abbondante, con un sorriso complice. Quell’impresa li esaltò, li fiaccò, li mutilò: Compagnoni ebbe una mano congelata e finì a lungo in ospedale, Lino perse un pollice. Tra quelle montagne che sono una delle spine dorsali della terra, che hanno allineato martiri e eroi, che qualche anno fa hanno reso i resti di Mallory l’invitto e ora, forse, quelli di Irvine, Lacedelli è tornato quando era vicino agli ottant’anni: si trattava di rendere onore al monumento dedicato a Mario Puchoz, uno di quelli che non sono tornati. La bellezza e il pericolo: Lino aveva goduto la prima e conosciuto il secondo in quei 200 interventi del Soccorso Alpino che l’avevano visto protagonista.  

“Lino Lacedelli, idraulico, guida alpina, maestro di sci”, aveva annotato Desio nel suo giornale di bordo imbarcandolo per quella navigazione ad altissima quota. Titolare di un negozio di articoli sportivi che battezzò K2, residente a villa K2: una lettera e un numero stampati sulla vita, sull’anima, nel ricordo. Scoiattoli vecchi e nuovi, in maglione rosso, sono andati a salutarlo, a sostener la bara. Niente meglio che spalle e braccia forti per l’ultimo viaggio. 


 

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