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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

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I sentieri di Cimbricus / La dimensione universale del triplo

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Domenica 17 Gennaio 2021

zango

 









Il recente mondiale al coperto di Hugues Zango conferma la storia senza confini di una gara che discende, a quanto si ripete, da esercizi nati per superare corsi d’acqua.

Giorgio Cimbrico

Il record mondiale indoor di Hugues Fabrice Zango, 18.07, primo oltre i 18 metri al coperto – e sesto di sempre nella combinata – finisce di trasformare il salto triplo in una perfetta dimensione universale, senza confini, e in un caleidoscopio di personaggi offerti da paesi piccolissimi, singolari, spesso senza diritto a una citazione: il Burkina Faso, sino al 1984 Alto Volta, rappresenta il nuovo ammesso in una dimensione in cui primati, vittorie, piazzamenti sul podio non hanno mai espresso monopoli, come nello sprint breve o prolungato, nel mezzofondo, negli altri salti, nei lanci.


Un singolare esercizio nato, si dice, per superare corsi d’acqua poco profondi, non poteva che produrre una storia unica e altrettanto unici sviluppi ed esiti.

 


Tutti i continenti e subcontinenti oggi presentano almeno un primatista mondiale: il Nordamerica, l’America caribica, il Sudamerica, l’Europa, l’Asia, l’Oceania e ora anche l’Africa: Zango, 27 anni, di “carrello” piuttosto basso e dotato di grande potenza, è nato a Ouagadougou, è residente in Francia, tesserato per l’Athletisme Artois, nord del paese, terzo ai Mondiali di Doha con 17.66, è allenato da Teddy Tamgho, costretto a cedere il primato al coperto all’allievo, 17.92 contro 18.07, centrato all’ultimo salto nella gara di Aubiere, chiusa in gran crescendo: 17.61, 17.70 (già superiore al suo limite all’aperto) e 18.07, anche in questo caso meglio del massimo assoluto espresso dal tecnico (18.04), tormentato in carriera da almeno due gravi infortuni muscolari

Nella sua storia, il triplo offre lo svolgersi e il sovrapporsi di scuole – o di correnti, quasi fosse un movimento artistico … – e la prima è quella del paese che dà origine all’esercizio, l’Irlanda. Daniel Ahearn apre la cronologia ufficlale con il 15.52 di quasi 110 anni fa, ma lo stesso Dan si era spinto dieci centimetri più in là l’anno prima, sempre a New York, in un meeting che non lascia dubbi sul clima indipendentista che vi si respirava: Irish Volunteer Games. Il triplo era un affare di famiglia: sotto la sigla GB&I, Great Britain and Ireland, il fratello Tim era diventato campione olimpico a Londra 1908, non andando lontano dai 15 metri.

Di solito, con accostamenti al mondo animale, i triplisti vengono chiamati cavallette o canguri: il primo kangaroo o wallaby a dar prova di sè è Nick Winter, oro a Parigi ’24: figlio del proprietario di una sala da biliardo nel Nuovo Galles del Sud, pompiere, campione di tiro alla fune e di ciclismo all’indietro, Nick è considerato l’uomo che introdusse il triplo in Australia: solo sei anni dopo il suo successo olimpico la gara venne inserita nei campionati nazionali.

A Colombes Winter pareggiò Ahearn con 15,52, precedendo l’avvento dei giapponesi che con Mikio Oda, Chuhei Nambu e NaotoTajima dominano tre edizioni dei Giochi e, con l’ultimo della triade, offrono l’approdo al continente dei 16 metri. Quei 16 spaccati berlinesi terranno quattordici anni, per essere uguagliati e superati dal sublime Adhemar Ferreira da Silva, due volte campione olimpico, primo a spingersi oltre i 16 e mezzo, fondatore della scuola brasiliana. Il triplo non ha più confini: una prova è fornita da chi Adhemar riesce a piegare di stretta misura a Melbourne: è Vihjalmur Einarsson, islandese che dona all’isola sospesa tra Europa e America la prima medaglia olimpica.

Sono gli anni del sorgere della potenza sovietica, e di un magistero tecnico che avrà riflessi importanti sulla scuola cubana (i “rimbalzisti” hanno a lungo la meglio sui “radenti”), ma è un nasuto polacco dal nome tedesco, Jozef Szmidt (in realtà Schmidt) a catturare due titoli olimpici, a Roma e a Tokyo, e a varcare per primo e per tre centimetri, un “ruscello” largo 17 metri.

La gara del 17 ottobre 1968 è una summa: è la battaglia dei continenti, con l’Europa occidentale che prende la testa e il record (Beppe Gentile), con l’URSS che subito dopo cattura entrambi (Viktor Saneyev), con il Brasile (Nelson Prudencio) che per un breve attimo può sognare l’avvento dell’erede del divino Adhemar, e con il georgiano (in realtà, abkazio) Saneyev che porta via tutto all’ultima mano.

È l’inizio di un dominio che porta Viktor, conosciuto come l’agronomo di Sukhumi, vicino al poker di Al Oerter e di Carl Lewis. L’ultimo asso gli verrà sottratto da un estone in maglia CCCP, Jaak Uudmae. Nel frattempo, Cuba irrompe in scena con Pedro Perez Duenas che priva per un anno Saneyev del record. Il passo successivo è un’esplosione, l’avvicinamento violento ai 18 metri, ad opera di uno dei personaggi maledetti di questa storia: con il 17.89 sulla pedana messicana delle meraviglie, Joao Carlos de Oliveira polverizza di quasi mezzo il record mondiale e cinque anni dopo, al Lenin di Mosca, si vede negare l’oro olimpico da un paio di bandierine rosse. Nulli da 18 metri, ma erano nulli? Coinvolto in un pauroso incidente e persa una gamba, Joao del salto, come lo chiamavano in Brasile, annegò nell’alcol e scomparve a 45 anni.

Nella cronologia del record gli americani fanno capolino per la prima e unica volta con Willie Banks, che richiede al pubblico che la rincorsa venga ritmata da applausi ritmati, non da un silenzio sacrale. Banks è anche il primo – Trials di Indianapolis ’88 – ad andare oltre i 18 (18.06 e 18.20) sia pure con troppo vento di coda, proprio nel giorno in cui il 10”49 di Florence Griffith va a libro con brezza … nulla.

Quando un quarto di secolo fa, all’Ullevi di Göteborg, Jonathan Edwards si spinge due volte, in piena legalità, oltre i 18, con jump finali da 6.85 e 7.02, alle spalle del britannico (che, se misurato dall’effettivo punto di stacco, avrebbe ottenuto 18.29 e 18.42 in luogo di 18.16 e 18.29), finiscono Brian Wellman di Bermuda e Jerome Romain dela piccolissima Dominica, da non confondere con la Repubblica Dominicana. Due cubani, Quesada e Garcia, e il giamaicano Beckford completano lo Slam delle isole.

Proprio gli isolani sembrano fatti apposta per rimbalzare e atterrare lontano: ha radici a Barbados l’americano Christian Taylor, due ori olimpici, quattro titoli mondiali e la sottile distanza di 8 centimetri a dividerlo da Edwards, ed è originario dell’arcipelago di Capo Verde il portoghese Nelson Evora che può stringere in mano il tris europeo, mondiale e olimpico.

A questa epopea che ha visto lampi svedesi (Olsson) e bulgari (Markov), l’Italia ha partecipato con la medaglia olimpica e i due record del mondo di Beppe Gentile, romano di radici sicule, e il bronzo londinese di Fabrizio Donato, pontino di nascita, frusinate per vita e residenza. E con le stagioni spezzate dell’apulo Daniele Greco, fulminato dalla sorte quando – ne era sicuro lui, ne eravamo sicuri noi – stava per spiccare la rincorsa verso la barriera che solo sette hanno saputo varcare.

 

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