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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





Raccontino di Natale / Cercavo Ben, ho incontrato Henry

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Venerdì 25 Dicembre 2020

 

moore-arciere


Cronaca di uno strano viaggio in Canada con sensazioni diverse: il fallimento dell’inganno e la piacevole (ri)scoperta di Moore e del suo lascito artistico alla città che l’aveva adottato.

Giorgio Cimbrico

Carlo Rognoni non era interessato allo sport ma quel nome gli era rimasto dentro: a causa di Ben Johnson aveva ordinato che quella sera del 24 settembre 1988 dopo la prima edizione e la ribattuta venisse varata un’edizione straordinaria. E così, ricordando quel nome, quella vicenda e forse anche quanto mi ero dato da fare per mettere assieme le tessere di quanto stava avvenendo (non chiedetemi perché non ero a Seul: non sono mai stato abile nelle manovre di corridoio) disse sì alla mia richiesta che venne nel suo caldo studio: Rognoni, in seguito l’onorevole Rognoni, era freddoloso. Era il gennaio del ’91.

“Sai, Ben Johnson ha finito la squalifica e tra un paio di settimane torna a gareggiare. Pensavo che non sarebbe male seguirlo”. “Dove corre?”. “Hamilton, Ontario”. “Bene, ma vedi di non spendere tanto”. E fu tutto. Il primo a esserne felice fu Giulio Vignolo, al tempo capo della redazione sportiva del Secolo XIX. Che avessi saltato la via gerarchica a lui non importava nulla: certe formalità non facevano parte del suo bagaglio, era più interessato a disegnare pagine che anticipavano i tempi. Ricordo uno scontornato di Katarina Witt alto quanto la pagina. Era un amico: quando è morto ho pianto ma al funerale è finita come in Amici Miei. A ricordare giornate memorabili e serate in cui lavorare era un piacere, e a sorridere con quella serenità che può essere rinvenuta solo in quei momenti.

Primi passi, il viaggio. La Canadian Pacific volava dalla Malpensa a Toronto e se ricordo bene il costo era sul milione. Una piacevole sorpresa furono i costi degli alberghi, sui 70, 80 dollari canadesi, a mille lire a dollaro era perfetto: Royal York a Toronto, Sheraton a Hamilton. Prenotati. Lo York si sarebbe tramutato nel quartier generale degli italiani.

Avevo un vecchio “montone”. Lo porto, non lo porto? Toronto, mi dice Dino (Pistamiglio, grande amico finito nella nebbie della coscienza), è la meno fredda delle città canadesi, in questo momento sono a meno 4. Montreal è sui 30 sotto. Ma sì, lo porto. Sorvolando il San Lorenzo ghiacciato penso di aver fatto bene. Non potevo cavarmela con il Burberry.

A Toronto, neve zero. Prima presa di contatto con gli altri italiani che hanno varcato l’Atlantico e cena: zuppa di cipolle e un’aragosta a testa. Spesa, 25 dollari. È il paese della cuccagna. Allora tutti viaggiavamo con un sacco di ritagli e gonfiavamo la busta acquistando i giornali locali. Internet era già nato ma sembrava una faccenda per originali. Come dicevano in una vecchia pubblicità della China Martini: “Dura minga”.

Hamilton è una città scozzese, con due brigate di fanteria leggera in gonnella e cornamuse, è stata la sede dei primi Giochi dell’Impero Britannico, nel 1930, ed è sulla via per le cascate del Niagara che, chiarisco una volta per tutte, sono più belle dal lato canadese. Sul lago, un bell’incontro con le oche dalla testa nera: il freddo mi ha sempre inebriato, dato la scossa.

Incontri con l’avvocato del gruppo di Charlie Francis, con Angella Issajenko, un’altra finita nella tormenta doping che ha strappato molte foglie d’acero. La tormenta, quella non allegorica, colpisce il giorno della gara. Gianni Merlo e io partiamo per tempo dopo aver dato un’occhiata al canale, sempre in funzione, delle previsioni meteo, normale in un paese dove condizioni e temperature possono essere mortali. “Verso le 11 inizierà una bufera che interesserà l’area dell’Ontario, specialmente tra Toronto e il confine con gli Usa” è l’annuncio. Si sa come sono gli italiani: qualcuno ghigna, qualcun altro dice che ai canadesi piace metterla giù dura. Noi andiamo e arriviamo con largo anticipo: la città è irriconoscibile sotto un metro di neve. Gli altri approderanno in ordine sparso, dopo un’odissea tra Tir fuori strada e spazzaneve che lanciano in alto grandi baffi bianchi.

Il meeting si chiama “Spectator Games”, lo organizza il giornale di Hamilton. Quello che distribuisce gli accrediti (un pezzetto di cartone: conservato) confessa che “di solito al nostro meeting, oltre a noi, vengono i giornalisti di Toronto, qualcuno di Montreal e due o tre dagli States, Buffalo non è lontana. Sette, otto in tutto: quest’anno siete arrivati in 250. Vi metteremo tra il pubblico, intanto, vista l’ora, esigenze non ne avete”.

L’arena è dentro un grande complesso coperto: cinema, negozi, ristoranti, l’albergo, il municipio, il sottopassaggio per andare in stazione. Giro in Lacoste e fuori c’è la tormenta. Mi piacciono i paesi dove le cose sono fatte per bene.

Il meeting è aperto dai pipes and drums, cornamuse e tamburi, degli scozzesi dell’Ontario. Le 60 yards sono un lampo, Ben Johnson un po’ meno: perde da Daron Council che pratica un mestiere perfetto per chi ha appena finito una pena: lo sceriffo. Dopo, fa una specie di conferenza alla buona e non dice cose immortali. A me, devo dire, ha sempre fatto tenerezza. La storia di quando ammazzava piccioni perché aveva fame – e freddo, normale per uno nato in Giamaica – ha avuto la sua parte in questo mio atteggiamento di clemenza.

Il giorno dopo torno a Toronto: bella chiacchierata con un anziano taxista nero. “Non voglio che mandino ancora i nostri ragazzi a farsi ammazzare”: è favorevolmente colpito dal fatto che io conosca i bagni di sangue canadesi alla cresta di Vimy e sulla spiaggia di Dieppe. Sono i giorni che precedono la prima guerra del Golfo e infatti torno nella notte dell’annunciato attacco al Kuwait. Rinviato di qualche giorno.

A mio figlio porto una maglia dei Toronto Maple Leaf, hockey su ghiaccio, ma è così grande che l’ha usata sino a quando è diventato un giovanotto. Un investimento.

Meno di sei mesi dopo, il 1° luglio, sono a Villeneuve d’Ascq per il trentesimo compleanno di Carl Lewis e soprattutto per il remake della sfida di Seul: corrono in nove sotto la pioggia e a una temperatura da autunno inoltrato. Mi pare che Lewis sia finito quinto, sono sicuro del piazzamento di Big Ben: nono. Sipario.

PS – A questa escursione invernale devo il mio amore per Henry Moore: l’Ontario National Gallery è ricca di bozzetti, gessi, disegni, più di trecento opere. Con questo lascito Moore volle ringraziare la città che gli aveva commissionato l’Arciere, piazzato davanti al municipio. Di recente, con una ferita inferta alle mie sostanze, ho comprato una litografia firmata, con due figure distese (influssi arcaici e michelangioleschi), proprio quella che sto ammirando mentre scrivo quest’ultima riga. Giuro che è la verità, non un espediente letterario.  


 

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