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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / "Two world wars and one World Cup"

Lunedì 20 Luglio 2020

 

charlton


La partita lontana mezzo secolo abbondante, vista dai 96.924 dello Stadio Imperiale, da 32 milioni e 300 mila britannici grazie alla BBC (è ancora un record) e da 400 milioni nel resto del mondo: un invito a una passeggiata nei corridoi del tempo. Cosa successe dopo?

Giorgio Cimbrico

Jack Charlton è il sesto “eroe di Wembley” che se ne va: aveva 85 anni. Della squadra di Alf Ramsey, che il 30 luglio 1966 conquistò il titolo mondiale battendo 4-2 la Germania Ovest, sono rimasti il difensore George Cohen, il mastino Nobby Stiles, l’attaccante Roger Hunt, Geoff Hurst, autore dell’unica tripletta in una finale mondiale, e Bobby Charlton, due anni più giovane del fratello, n.10 tra i più nitidi nella storia del calcio, Pallone d’Oro nel ’68 quando il Manchester United conquistò la sua prima coppa dei Campioni. .

Jack, difensore centrale di alta statura, un po’ cavallino, un po’ giraffesco, aveva passato tutta la sua vita da giocatore, più di un ventennio, nel Leeds United. Non ha mai allenato squadre metropolitane: nel suo curriculum, Middlesbrough, Sheffield United e Newcastle, la provincia inglese delle Midland e del Nord, un calcio molto frequentato da quelli che presto sarebbero entrati nel suo destino.

La svolta quando lui, inglese, accettò, senza pregiudizio alcuno, di allenare la nazionale della Repubblica d’Irlanda portandola prima alle fasi finali dell’Europeo ’88, poi a quelle di Italia ‘90, dove raggiunse i quarti di finale per essere eliminato da un gol di Totò Schllaci. La migrazione dei miti e simpatici tifosi verdi costituì uno dei capitoli più piacevoli nella cosiddetta parentesi delle “notti magiche”.

Quel buonanima di Bobby Robson, CT dell’Inghilterra, definì il gioco dei “Repubblicani” la quintessenza di quanto tecnicamente veniva espresso dalla serie B inglese ma quando le due squadre si trovarono faccia a faccia, al Sant’Elia, il gol di Lineker venne seguito, un’ora dopo, da quello di Sheedy e furono i verdi e non i bianchi a festeggiare.

L’Eire riconobbe a Jack la cittadinanza onoraria. Lui, più noto come Jackie, amava la pesca alla mosca e là si trovava benissimo: per di più le giacche e i cap di tweed che si trovano nella Repubblica superano di gran lunga, per gamma di colori e per morbidezza, quelle e quelli del Regno Unto. Solo la Scozia può reggere il confronto.

Il miglior “coccodrillo” che si possa dedicare a Jack – e a Gordon Banks e Martin Peters che se ne sono andati negli ultimi mesi – è la riesumazione del 30 luglio 1966, che si sta avviando al 54° anniversario, preceduta da una bella battuta di George Cohen: “Ci vuole sempre un Cohen perché l’Inghilterra diventi campione del mondo”. Ben, il nipote, era una delle ali della squadra che nel 2003 conquistò la Coppa del Mondo di rugby.

Ventun anni dopo, tracce e scorie della guerra vivevano e ronzavano nelle teste, nei rancori, nei ricordi. “Stalingrad” dicono abbia bofonchiato tra sé e sé Tofik Bakhramov mentre l’arbitro, lo svizzero Gottfried Dienst, si dirigeva verso di lui, uno dei suoi guardalinee, per chiedere cosa avesse visto: Dienst non aveva visto niente. Il dialogo avvenne a gesti: Dienst parlava tedesco e francese, Bakhramov, di passaporto sovietico e di etnia azera, russo e turco. E così, a gesti, Bakhramov disse che era gol e Dienst indicò il centrocampo. Ai tedeschi non rimase che protestare, provare a riflettere e pensare che avevano ancora un quarto d’ora abbondante per confezionare un altro miracolo.

Sotto le tettoie di Wembley stava nascendo uno slogan spietato che per anni sarebbe stato martellato ad ogni incrocio dei Tre Leoni con gli Unni: “Two world wars and one World Cup, due guerre mondiali e una coppa del mondo”. Era il seguito naturale e ritmato di quanto, quella mattina era uscito in prima pagina su un giornale importante: “Oggi, a Wembley, Inghilterra e Germania Ovest giocano la finale della Coppa di calcio, il nostro sport nazionale. Comunque vada, in questo secolo li abbiamo battuti due volte nel loro sport nazionale”. Il politicamente corretto, allora, non esisteva.

Su quell’11’ del primo tempo supplementare sono stati versati, come si diceva una volta, fiumi di inchiostro, e assemblati filmati e sequenze fotografiche di non grande nitore e di dubbia chiarezza. Di facilmente individuabile ci sono il cross di Alan Ball e la girata al volo di Geoff Hurst: palla sotto la traversa e sulla linea prima di rimbalzare in campo. Tilkowski, il portiere tedesco, fa no con il braccio, Roger Hunt è il primo a esultare e si trasforma in un testimone: “Ero vicino e avrei potuto ribadirla dentro, ma non ce n’era bisogno”.

Il tentativo di ricostruzione più convincente venne fatto in un laboratorio di Oxford e portò alla conclusione che mancavano dai 3 ai 6 centimetri perché la palla avesse varcato la linea per intero. In un suo libro di memorie, Bakhramov scrisse di non aver realizzato che la palla avesse colpito la traversa ma che fosse tornata in campo dopo che la rete aveva funzionato da elastico. Come spiegazione non è granché, ma è quella che è stata tramandata, insieme ai gesti di assenso rivolti all’accigliato e preoccupato Dienst.    

La partita lontana mezzo secolo abbondante, vista dai 96.924 dello Stadio Imperiale, da 32 milioni e 300 mila britannici grazie alla BBC (è ancora un record) e da 400 milioni nel resto del mondo, è un invito a una passeggiata nei corridoi del tempo. Cosa successe dopo? I tedeschi spesero la sabbia che scorreva nella clessidra in un attacco che divenne un’occupazione della metà campo inglese. Il 120’ stava arrivando, qualcuno era in agguato sulle linee laterali per invadere e dare sfogo alla gioia. “It’s all over, it’s now, it’s four, è finita, è ora, sono quattro” si lanciò in un prolungato acuto Kenneth Wolstenholme, che sedeva dietro al microfono della BBC quando su un rilancio in una zona deserta Geoff Hurst scaricò una botta terribile all’incrocio. “Ho colpito forte perché speravo di buttarla in curva. A occhio, avevo capito che stava finendo e così, tra recuperare la palla e rimetterla in gioco, tempo non ne sarebbe rimasto”. Invece la palla finì dentro, sul tabellone manuale il risultato venne corretto in 4-2 e l’attaccante dello West Ham divenne l’unico ad aver segnato tre gol in una finale mondiale e oggi, a 78 anni compiuti, stringe ancora tra le mani lo scettro dell’hat-trick.

La prima esultanza – Moore sulle spalle di Hunt e di Ray Wilson, con Martin Peters che guarda felice – è diventato un gruppo bronzeo e il capitano, scomparso a 52 anni, ha avuto un’altra statua, all’ingresso principale del nuovo Wembley, bellissimo, ma che nulla ha che fare con il vecchio. Un monumento lo ha avuto anche Alf Ramsey, scomparso nel ’99, ma è a Ipswich dove il CT portò un titolo della Football Association, mai agevole per una provinciale.

Ramsey era un uomo spiccio, della vecchia scuola. Quando gli chiesero quale era stata l’esperienza che gli aveva segnato la vita, rispose: “Il servizio militare durante la guerra”. Non aveva combattuto memorabili battaglie, solo sorvegliato le coste nel reggimento del Duca di Cornovaglia, ma aveva fatto il suo dovere. Con la maglia bianca addosso, da terzino, aveva avuto delusioni terribili: era in campo a Belo Horizonte quando gli Usa piegarono i “maestri” che per la prima volta si erano degnati di frequentare il resto del mondo, e tre anni dopo, a Wembley, venne costretto a misurare la distanza – siderale – che divideva il calcio inglese da quello ungherese: 3-6. Qualche mese dopo, al Nepstadion di Budapest, andò anche peggio: 7-1.
Quando il vecchio Winterbottom gli lasciò il posto, Alf (lo chiamavano ii Generale anche se sotto le armi era arrivato al grado di sergente maggiore) si limitò a una parola: “Vinceremo”. E vinse, riuscendo a mutare un cristallizzato gioco inglese fatto di traversoni con uno schieramento che, nelle partite decisive e senza ritorno con Argentina (Alf venne accusato di averli chiamati animali) e Portogallo, venne battezzato Wonder Wingless, la meraviglia senz’ali. Peters e Ball, in effetti, stavano abbastanza stretti a far reparto di mezzo con la lucidità e l’eleganza di Bobby Charlton.      

Quel memorabile pomeriggio viene spesso assorbito nei pochi istanti finiti nel repertorio dei grandi interrogativi. Prima c’era stato il vantaggio tedesco (i vecchi bolognesi ricordano Helmut Haller con affetto), il colpo di testa di Hurst, il vantaggio inglese (di Peters) a meno di un quarto d’ora alla fine, la furibonda mischia e il tocco di Wolfgang Weber che infilò Gordon Banks detto il Cinese quando il tempo stava scadendo, rinviando a supplementari storici quanto quelli, quattro anni dopo, di Italia-Germania 4-3. Dopo, toccò a una quarantenne regina Elisabetta in giallo tuorlo premiare un gruppetto di suoi sudditi singolarmente in maglia rossa. Del calcio non le è mai importato molto, ma le immagini di quel giorno la offrono sinceramente felice.

 

 

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