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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / La sua tribu' era il Sudafrica

Martedì 23 Giugno 2020

 

mandela 


Un quarto di Secolo dalla partita che Nelson Mandela – il leggendario Madiba – giocò e vinse contro l’odio ed il razzismo: con il solo gesto di tendere la mano, con una speranza e un solido realismo.

 

Giorgio Cimbrico

 

Domani, 24 giugno, saranno 25 anni dalla partita che Nelson Mandela giocò e vinse contro l’odio, la violenza, il razzismo, la tortura, il buio. Non esistono prove ma l’ispirazione del drop che decise la finale con la Nuova Zelanda, calciato da Joel Stransky, venne da lui, dal più grande numero 6 della storia del rugby che a rugby non aveva mai giocato perché aveva altro a cui pensare, ma quando decise di scendere in campo, cambiò tutto in nome delle sue regole lievi, dei suoi desideri assoluti. Quando sette anni fa è morto, non c’è stato strazio, solo un senso di vuoto per quel giovanissimo vecchio che aveva accompagnato la nostra vita, le speranze di riscatto, i desideri spesso frustrati di ritorno a un’umanità perduta. Lui, il Madiba, non aveva mai mollato.

E così mi è tornato in mente il giorno – era il settembre del ’97 – in cui andammo a sentirlo e lui aveva uno di quei magnifici camicioni con i colori di un continente (il verde delle foreste, il giallo del deserto, il rosso dei tramonti) e aveva quella voce in eterno falsetto e quel sorriso, e disse che era un africano di quasi ottant’anni che veniva a chiedere per l’Africa ciò che l’Africa non aveva mai avuto: l’Olimpiade. E i “cardinali” del CIO, i membri di uno dei più potenti consigli d’amministrazione del mondo, lo ascoltarono e qualcuno fece anche finta di commuoversi, ma intanto i Giochi stavano per essere fatti e assegnati ad Atene.

E si sapeva, in quel settembre del ’97, che Cape Town, Kapstad in afrikaans, non aveva neanche una chance, ma era venuto il Madiba, il Gandhi del finire del XX secolo, degli esordi del XXI, dei nostri giorni, il Nobel, e così il grande auditorio di Losanna era stracolmo di commossi veri e di cinici pentiti: ogni momento, ogni parola dovevano essere ricordati per esser sigillati nella memoria. E’ bello vedere la storia, ascoltarla.

Mandela non aveva nulla di magnetico. Aveva un’espressione buona e questa apparente dolcezza mimetizzava appena la sua fermezza, la volontà di un cambiamento che aveva maturato nei lunghi anni di carcere, quando alla violenza che aveva sostenuto, alla violenza che aveva dovuto sopportare per quel periodo infinito lungo un quarto di secolo, aveva deciso di rispondere con un nuovo atteggiamento che aveva radici, profonde come quelle di un baobab, in una speranza e in un solido realismo. Mandela sapeva che il regime bianco aveva il potere e la forza intollerante che potevano portare a capofitto in un bagno di sangue, il più grande in un continente che ne ha vissuti di spaventosi. Se tutto doveva essere contenuto in un gesto, questo doveva essere tendere la mano. Anche a Terreblanche, il profeta violento del Libero Stato di Orange. E pazienza se lui non l’avrebbe stretta.

Alla vigilia della Coppa del Mondo di rugby del 1995 Mandela diede al capitano Francois Pienaar un ordine come sapeva darlo lui, lieve: “Prendi la squadra e portali a Robben Island”. Presero il battello e andarono nel vento di Robben Island, lo scoglio desolato abitato da pinguini e, un tempo, da ergastolani e dai loro guardiani. E quando i giocatori boeri visitarono il penitenziario, entrarono nelle celle ormai vuote, non sapevano cosa fare. Scrollare il capo? Piangere? Loro, nati in quelle famiglie dagli antent con pochi e sicuri simboli – la Bibbia, l’aratro, il fucile – che chiamavano kaffir i neri e che avevano negato loro ogni diritto, spesso anche di esistere. Erano nati, erano cresciuti, erano andati a scuola, avevano giocato a rugby e a cricket, e l’uomo che era diventato il loro presidente stava lì, in quei quattro metri quadri, o fuori, in cortile, a rompere pietre, ad obbedire agli ordini latrati dai secondini: il recluso numero 46664.

Quel numero diventò un simbolo, un monito. Finì anche sulle maglie. Un onore portarlo addosso. “E per me fu un onore portare la maglia della nostra nazionale”, raccontava il Madiba dopo che un uomo della sua scorta aveva avuto l’idea: sarebbe stato bellissimo che il presidente entrasse sul prato dell’Ellis Park, Johannesburg, con la maglia verde cupo e il colletto color dell’oro come quello estratto nel Rand, per dare l’ultimo incoraggiamento ai sudafricani che stavano per scontrarsi con i terribili neozelandesi, gli All Blacks con una montagna nera. Jonah Lomu. In palio, la Coppa del Mondo: per loro, quella dell’esordio: nell’87 e nel ’91 erano ancora al bando. Due ore dopo, loro, i figli del nuovo Sudafrica, l’avrebbero stretta tra le mani e il farmer con la trippa da birra abbracciava il piccolo bantu. Ci sono le prove, ci sono le foto, i filmati.

La vita è fatta di momenti e di intuizioni perfetti per il messaggio grande che uno ha dentro e che spesso le parole non riescono ad esprimere o, se lo esprimono, è in modo formale, arido. Con quella maglia addosso, la numero 6 di Pienaar, Mandela disse al suo paese e al mondo che il nuovo Sudafrica non dimenticava il vecchio, anche se era stato crudele, intollerante, violento, il Sudafrica delle township (Soweto uguale South West Township), delle miniere che scendevano sino al centro della terra, mandate avanti da uomini senza un diritto, trattati come animali da soma, delle torture, dei desaparecidos che chissà come si dice in afrikaans, delle ribellioni soffocate nel sangue, come quella del 16 giugno 1976 quando sotto il fuoco delle armi automatiche caddero 500 giovani e il primo a non rialzarsi aveva 13 anni.

La loro colpa era di non voler imparare l’afrikaans, la lingua dei padroni, un olandese arcaico corrotto nei tre secoli di dominazione boera. Mandela era a Robben Island, seppe, fece quel che aveva sempre fatto, far giungere un messaggio: “Resistete”. E così quella maglia con la gazzella che balza, la Springbok, odiata dai neri, divenne un simbolo e un monito: “Se sono qui, non è per vendicarmi. Se sono qui, è per cambiare il paese, la sua anima”. E il passo successivo fu l’istituzione della Commissione per la Verità e per la Riconciliazione, un organismo itinerante che andava dove l’apartheid aveva commesso crimini, dove le famiglie delle vittime prestavano dolorosa testimonianza, dove ai carcerieri e gli aguzzini, anche a quelli del braccio speciale della polizia politica, era chiesto solo di confessare: l’espiazione può passare anche attraverso una presa di coscienza, un dialogo sincero e finale con se stessi.

E quelli che gli erano stati accanto negli anni più duri e bui, quelli che lo avevano affiancato nell’Umkhato we Sizwe, la Lancia della Nazione, l’organizzazione che portava avanti la lotta armata e che aveva contatti con gli altri paesi africani (anche la Libia di Gheddafi) si stupirono e pensarono che forse la prigione e la vecchiaia incombente avevano rammollito il loro leader che ora sedeva ai vittoriani Parliament Buildings di Pretoria. E invece non avevano colto sino in fondo lo sviluppo del pensiero, l’armonia che doveva portare a qualcosa di diverso, alla Rainbow Nation, alla nazione arcobaleno dove la Bibbia è stampata in 27 lingue. Il Madiba ha provato a costruire le fondamenta. Il lavoro, purtroppo, si è fermato da quelle parti. La corruzione, il malaffare, i potentati economici, gli interessi: sono tanti i fattori che hanno lasciato ricchi i ricchi, che hanno creato un nuovo e non limpido vertice nero, che hanno impedito di lanciare la grande crociata contro l’Aids, che non hanno spazzato le baraccopoli, che non hanno eliminato il filo spinato attorno alle ville.

Restano e resteranno i suoi segni: l’inno che unisce la musica cara all’African National Congress (nkosi sikeleli Africa, dio benedica l’Africa) al marziale e boero die Stem; la bandiera questa sì del tutto mutata e molto africana; i 500.000 che nell’estate del 2008 si riunirono ad Hyde Park per augurargli buon 90° compleanno e il Madiba, già molto debole, volò a Londra, salì sul palco e spianò le mille righe del suo viso; il suo volto stampato sulle magliette di quelli che lavorano lungo le strade, nei cantieri, e dipinto in mille murales, l’arte delle township; i monumenti che gli hanno eretto e in tutti lui sorride: il film che Clint Eastwood gli ha dedicato. Invictus, l’invitto. Perfetto.  

Il Madiba veniva da Mvezo, Transkei, sudest del Sudafrica. Iniziò il suo lungo cammino per la libertà rifiutando un matrimonio combinato, lasciando il villaggio, andando a Johannesburg per fondare uno studio legale (Mandela & Tambo) e aiutare i vessati, quelli che dovevano sempre chinare la testa, le ombre nere del pianeta bianco. La sua tribù era più grande, era il Sudafrica.

 

 

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