Italian Graffiti / Che fine hanno fatto le Societa' Sportive?
Sabato 13 giugno 2020
“Non sarebbe opportuno che le Società Sportive “tradizionali”, quelle che fanno realmente sport, abbiano un registro che le tuteli con una specie di marchio di qualità? Un riconoscimento che oggi non si rifiuta a nessuno”.
Gianfranco Colasante
Se potessi dare un consiglio non richiesto, suggerirei al buon Giovanni Malagò di indire dei nuovi Stati Generali – iniziativa già lanciata lo scorso anno, ben prima di Conte, ma con scarso successo – allo scopo di affrontare un tema d’attualità: la sopravvivenza delle Società Sportive. Anche se c’è pur sempre il rischio che finisca come l’altra volta, senza neppure un foglietto di sintesi. E invece di questi tempi, con il combinato disposto di Sport e Salute e del Covid-19, l’argomento meriterebbe una certa attenzione da parte di chi – casualmente o per merito – si trova al vertice della piramide sportiva. Mi spiego facendo un lungo passo all’indietro.
Nel lontanissimo 1936, tra i Giochi Invernali di Garmisch e la vigilia di Berlino – come dire, in era paleolitica rispetto ad oggi –, il CONI pubblicò un mastodontico volume (1350 pagine, …) nel quale raccoglieva i nomi e le cifre della sua organizzazione, centrale e federale. In quel tomo, tra le tante informazioni disponibili (mentre si riaffermava la data del 1908 come anno di fondazione del Comitato), per ciascuna federazione venivano elencate le Società aderenti con indirizzi e, come si direbbe oggi, management.
Certo, dati quantitativamente risibili rispetto ai nostri giorni, dove tutto sarebbe a portata di clic, ma poi si finisce col non trovare nulla, non soltanto per il rispetto della privacy. Ma è un dato: oggi non c’è nulla del genere. Lasciamo perdere i libri e libroni, ma in effetti, a voler scavare nei siti istituzionali dello sport – come credo d’aver già scritto –, anche ad Indiana Jones passerebbe la voglia.
Già all’epoca aderivano al CONI 14 federazioni olimpiche e 12 non olimpiche. Ed anche allora il calcio la faceva da padrone, con 2180 club e 64.172 tesserati. Certo, erano tempi di dittatura e di sanzioni, con l’abolizione dei termini stranieri anche nello sport, così il record era diventato “massimo” mentre i gol si chiamavano “porte”. Ma già a quel tempo per il calcio i soldi erano tanti, tantissimi: tanto per fare un esempio, solo per arbitri e guardialinee (si chiamavano ancora così) nell’anno 1935 se n’erano andate 509.130,40 lire, come dire quasi il doppio di quanto il CONI riservava alla federazione di atletica, ferma – come capitava anche al nuoto – a 300.mila lire di contributo.
E questo malgrado l’atletica leggera avesse numeri simili se non superiori al calcio, con 3210 società e 62.891 tesserati (ma solo 353 erano le ragazze, …). Una disparità che trovava la sua spiegazione: quelli erano i giorni del seniore della milizia Giorgio Vaccaro, al comando assoluto nella doppia veste di segretario del CONI in camicia nera e di presidente della FIGC in sahariana, proprio la sedia su cui siede Gravina, e il gioco era facile.
Vero anche che allora si ragionava esclusivamente in termini agonistici, un credo cui dovevano adeguarsi anche i settori giovanili. Il solo accenno che in quel volumone si faceva alla promozione – tanto di moda oggi, in uno con la salute dei pochi giovanissimi e dei tanti vecchi – era contenuto in un messaggio di Mussolini che scandiva: “in uno Stato ben ordinato la cura della salute fisica del popolo deve essere al primo posto”. Profetico, si potrebbe commentare.
Ancor più avanti s’era spinto il potente sottosegretario Leandro Arpinati che anni prima, alla Camera aveva ripetuto concetti già espressi sul primo numero del Littoriale, apparso il 12 dicembre 1927: “se si vuol fin d’ora conoscere la sintesi del nostro pensiero, essa è questa: lo sport come dovere di tutti i cittadini; la diffusione e il sostenimento dello sport, come funzione dello Stato, nei confronti di tutti i cittadini indistintamente; il disinteresse e la moralità degli sportivi come fine della organizzazione e della propaganda”. Nulla di nuovo sotto il sole, si direbbe. Non vi pare d’aver sentito recentemente qualcosa del genere?
Tutta questa lunga premessa per tornare al suggerimento iniziale e formulare una domanda. Quante sono oggi le società sportive e quante meriterebbero di fregiarsi veramente di quel titolo? Intendo quelle che svolgono a pieno titolo la loro funzione: reclutare ed addestrare i giovani a rappresentare la propria disciplina al massimo livello, portandoli se possibile fino a Mondiali e Olimpiadi. Come è (meglio dire era?) nella tradizione del nostro paese. Ebbene, qui ci si perde tra le nebbie artificiali sollevate attorno alla parola Sport, ridotta ad un calderone fumante nel quale ribollono buone intenzioni, tanta improvvisazione insaporite con un pizzico di interesse, e dove si rimescola artatamente e sapientemente il tutto. Pur di confondere.
In un recente post a pagamento sui quotidiani (12 marzo 2020), l’ANIF – l’Associazione Nazionale Impianti per lo Sport e il Fitness – rivendicava per sé il coordinamento di 20 milioni di praticanti e la disponibilità di 100.mila strutture sportive. Avete letto bene: un italiano su tre pare gioisca praticando saltelli e flessioni in uno di quei centri fitness, forse convinto di fare sport, dal signore di mezza età con problema cardiaci alla segretaria che teme la prova costume. Tutti assieme appassionatamente. Società sportive anche quelle, certo, anche se a ben vedere si tratta né più che meno che di aziende, per frequentare le quali è richiesto un abbonamento abbastanza cospicuo.
Sempre con lo stesso sistema dell’avviso a pagamento (16 marzo 2020), l’ASI – Associazioni Sportive e Sociali Italiane –, uno degli enti di promozione, rivendicava a nome suo e di una ampia galassia di “operatori primari del settore e della formazione” (come dire: Virgin, Mcfit, Fitness Network Italia, Fitexpress, GetFIT, Tonic, ecc.), un intervento dello Stato a favore dei 500.mila “addetti qualificati” che rischiavano il posto con la pandemia, riducendo però il numero dei tesserati a soli 12 milioni e le “società sportive organizzate ed afferenti ai diversi organismi riconosciuti dal CONI” a non più di 95.mila. Punti di vista.
Certo, ognuno tira l’acqua al mulino di casa. Ma è altrettanto vero che, travolte dall’avanzata di quelle palestre fitness e dei vari centri benessere, le autentiche Società Sportive hanno chiuso o stanno chiudendo i battenti a centinaia. E in silenzio. La crisi e i suoi effetti faranno il resto. Le prime a farsi da parte sono state quelle più antiche, quelle storiche e radicate nell’Ottocento, seguite da presso dai centri universitari (quei meritori CUS che adesso si limitano ad aprire agli “amatori”, e a pagamento, gli impianti costruiti con fondi pubblici per l'alto livello) e quelle di derivazione industriale, un tempo tanto numerose quanto attive. Con l’abolizione della leva, anche le società militari – che pure restano l’ossatura dello sport nazionale (oltre l’80% delle nostre rappresentative olimpiche porta le stellette) – hanno rinunciato alla promozione e si limitano ad “arruolare” per periodi più o meno lunghi atleti già, diciamo così, fatti e rifiniti.
Come vedete, motivi di riflessione ce ne sarebbero, ma il tutto avviene nel disinteresse di chi dovrebbe preoccuparsene e casomai intervenire: diciamo, così a caso, il CONI? Adesso su un settore già macilento e rassegnato, irrompe sgomitando la società governativa Sport e Salute con la finalità di porre nell’angolo il Comitato Olimpico – già malridotto di suo – e ridurre le Federazioni a sezioni di propaganda aperte a tutte le età. Sarebbe invece giusto cominciare a distinguere tra le residue Società Sportive rimaste e il variegato resto della compagnia che opera, a pagamento, in palestre scintillanti di macchinari sofisticati o nelle piscine dove agli agonisti – una specie guardata con un certo sospetto –, ben che vada, si lascia la disponibilità di una o due corsie.
Chiudo con una provocazione (anche questa non richiesta): non sarebbe opportuno per le Società Sportive “tradizionali”, quelle che fanno e fanno fare realmente sport, avere un registro che le tuteli attraverso una specie di marchio di qualità? Un riconoscimento che oggi non si rifiuta a nessuno, un po’ come capita ai formaggi tipici o ai vitigni di proprietà superiore. A chi toccherà salvare il salvabile? Che ne direste di una nuova edizione degli Stati Generali? Casomai stavolta con un documento finale che li giustifichi. Prima della ghigliottina.
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