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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / "Trionfi, Politica e Passione"

Martedì 9 Giugno 2020

 

wellington 


Se de Coubertin non disse mai che partecipare è più importante che vincere, esiste qualche dubbio che Wellington abbia pronunciato sui campi sportivi scolastici le parole alla base della vittoria su Napoleone, anche perché la frequentazione di quei campi gli risultò difficoltosa.

Giorgio Cimbrico

“Cibo per polvere da sparo, niente di più”: così un’astiosa Anne, mamma del futuro Duca di Wellington, rese ancor più bruciante la delusione per la bocciatura di Arthur all’esame di ammissione a Eton, dove i fratelli avevano avuto accesso e conquistato distinzione. E anche quando il nasuto giovinetto riuscì a far spalancare in qualche modo le porte della più illustre scuola di preparazione, la madre continuò a non nutrire fiducia, preferì metter mano alla borsa e acquistare una patente di alfiere per il 73° reggimento di fanteria. Arthur Welsey – Wellesley, secondo la grafia che venne in seguito adottata dalla famiglia – aveva diciotto anni e influenzato dall’atmosfera di casa – il conte suo padre si dilettava a insegnar musica al Trinity College di Dublino - pizzicava ancora il violino.

Le prime esperienze, gli sviluppi, i trionfi e la tarda età da autoritario e poco amato primo ministro possono esser visitati attraverso i ritratti per cui posò – faccia a faccia con Francisco Goya, Thomas Lawrence, John Hoppner –, esposti alla National Gallery e alla National Portrait Gallery, edifici affacciati sulla piazza che evoca un’altra grande vittoria sui francesi, Trafalgar. Arthur, anglo-irlandese come molti militari prima e dopo di lui, era detto the beau, il bello, ma anche Nasone.

Nella mostra – “Trionfi, Politica e Passione” – che venne allestita cinque anni fa per il 200° anniversario della vittoria di Waterloo, anche l’unico ritratto fotografico del Duca, un dagherrotipo del 1844 che lo ritrae calvo, con lunghi favoriti bianchi (un’aria più cadente dei 75 anni che raggiungeva allora), in frac e senza alcune delle innumerevoli decorazioni e degli amati ordini cavallereschi di cui fu appassionato collezionista, sino ad allinearne una trentina. A uno strenuo conservatore quale era, la fotografia deve esser apparsa una diavoleria, ma accettò di finire nel mirino di quello strano obiettivo, così come della modernità che si stava facendo strada accettò il riscaldamento centrale e i primi sistemi, meno legati all’olio di gomito dei domestici, per lavare i panni.

Se Napoleone, coetaneo e avversario – che Arthur finì per vedere solo da lontano, inquadrandolo nel cannocchiale nel giorno decisivo – ebbe una carriera rapida e travolgente che lo portò meno che trentenne a conquistare un gran pezzo d’Italia per poi lanciarsi nell’avventura in Egitto, Wellington non fu altrettanto rapido nell’imboccare la strada della fama e degli avanzamenti. Era solo tenente quando partecipò alla spedizione, guidata dal Duca di York, nei Paesi Bassi, un’avventura che gli permise di confezionare uno dei suoi detti memorabili: “Appresi ciò che non dovevo fare e questa fu una grande lezione”. L’India, così decisiva per le fortune di Robert Clive, diventò il teatro delle sue prime rimarchevoli imprese in guerre contro sultani e marathi, disseminate di vittorie di cui possono rinvenute tracce in lacere bandiere esposte nelle cattedrali inglesi. Quella contro Tipu, a Mysore, rimane la più brillante.

“Per Giove, crescendo è diventata brutta”, confidò a un amico quando, tornato in Inghilterra, incontrò Kitty Pakenham, il grande amore della prima giovinezza. La famiglia Pakenham non vedeva in lui né un buon partito né un giovane con un futuro brillante. Ora, colonnello e plenipotenziario del Deccan, non c’è dubbio si presentasse sotto una luce migliore. I rapporti vennero riallacciati e, malgrado l’ormai sfiorita avvenenza di Kitty, il matrimonio ebbe luogo e proseguì, senza la travolgente passione dell’unione di Napoleone con la creola Giuseppina, sino alla morte della moglie, nel 1831.

Un freddo, si è sempre detto di Wellington ricorrendo ai luoghi comuni sulla glacialità e su formalismo della nobiltà inglese. A parte le lacrime versate in fondo alla terribile giornata di Waterloo quando, come in un dramma shakespeariano, si aggirò sul campo di battaglia in groppa al fido Copenaghen (acquistato puledro durante la campagna di Danimarca), le caratteristiche del giovane che stava diventando uomo appaiono nelle sue opere, nel suo impegno, nello studio appassionato che tendeva a tener lontana la fiamma napoleonica dell’imprevedibilità, a vantaggio di una concezione razionale che ebbe il postulato centrale nella “posizione wellingtoniana”: mai dare o accettare battaglia se non in un luogo dalle caratteristiche favorevoli. In questo senso, Waterloo fu il suo capolavoro: per raggiungere quell’appena accennato altopiano su cui aveva schierato i quadrati di scozzesi, di irlandesi, di hannoveriani, prima la fanteria, poi la cavalleria pesante e infine la Guardia di Bonaparte lasciarono cadaveri a montagne e, di pari passo, la certezza che in loro aveva instillato l’Imperatore: “Andremo a riposarci a Bruxelles”.

Ma come erano giunti faccia a faccia? Il cammino, almeno per Arthur, partì da lontano, dall’angolo estremo d’Europa, il Portogallo, dove inventò una linea fortificata, Torres Vedras, e da dove iniziò la conquista della Spagna in quella che i britannici chiamano Guerra Peninsulare, un’ininterrotta serie di successi, spezzata solo quando, per un breve periodo, le operazioni vennero prese direttamente in mano dall’imperatore che strappò le briglie dalle mani imbelli del fratello Giuseppe, posticcio re di Spagna, soprannomino Pepe Botella per una forte passione enologica.

Fu sconfiggendo il più anziano della tribù dei Bonaparte che Wellesley divenne Wellington, dal nome della baronia che gli venne assegnata, un borgo del Somerset: capitò nel 1809 a Talavera, dopo che, alla morte di sir John Moore, caduto nel feroce scontro di La Coruña, aveva assunto il comando in capo del corpo di spedizione. La campagna culminò nel trionfo di Vitoria (Beethoven, dopo aver rinnegato Napoleone, gli dedicò una brutta e rozza composizione, la Sinfonia di Vittoria o Vittoria di Wellington), nell’invasione della regione pirenaica, nella caduta della Francia, nella prima abdicazione del corso che in Inghilterra chiamavano il Mostro. La storia stava finalmente per metterli uno di fronte all’altro nel luogo che ha finito per significare trionfo senza confini, disfatta senza limiti: Waterloo.  

 

 

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