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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

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I sentieri di Cimbricus / Il lamento selvaggio delle cornamuse

Venerdì 22 Maggio 2020

 

cornamuse 


La musica, in Scozia, è sempre stata una faccenda importante, mezzo di comunicazione e canzoni eseguite nei salotti della borghesia e nelle sale da concerto. Ma anche sui campi di rugby.

Giorgio Cimbrico

Torot, torot, torot, ratatat, ratatat, ratatat scandiscono i tamburi e i tambur maggiori, prima che l’aria inizi a vibrare al lamento selvaggio delle cornamuse: la musica scozzese è da campo di battaglia, da coraggiose avanzate, da rotte senza quartiere, da trionfi e orgogliosi disastri; è musica da campo da rugby, da sfide senza prigionieri: “cornamuses o bal musette” diventò l’enorme etichetta di prima pagina di un’Équipe di trenta e più anni fa, quando il Torneo si decideva tra blu con il cardo e blu con il galletto, Blues navy e Bleus.

C’è un paio di immagini che nessun documentario bellico trascura: una è di ambiente desertico, quando parte l’offensiva lanciata da Montgomery che dal confine tra Egitto e Libia ricaccerà per sempre all’indietro l’Afrika Korps di Rommel, e nei bagliori notturni dei traccianti viene a disegnarsi la silhouette di un piper che gonfia la sacca e dà fiato alla determinazione di quelli che vanno all’assalto; l’altra ha, in sottofondo, la risacca della Normandia proprio nel momento in cui Bill Millin, suonatore di cornamusa di Simon Fraser, quindicesimo Lord Lovat, sta per prendere terra, armato solo del suo strumento. “Veramente, sir, il regolamento dice che non dovrei accompagnarvi”. “Vero, Bill, ma quello è un regolamento inglese, noi siamo scozzesi e così non è applicabile”.

Lord Lovat doveva dare il cambio agli uomini del maggiore Howard che, nella notte tra il 5 e il 6 giugno 1944, erano scesi con gli alianti e avevano occupato il ponte sul fiume Orne che da loro, e dal simbolo del loro reggimento, avrebbe preso un nome che nessuno ha osato correggere: Pegasus Bridge. Quando in lontananza sentirono “The Black Bear”, capirono che i rinforzi stavano arrivando.

Nel rugby la cornamusa aveva fatto sentire la sua voce piangente il 1° gennaio 1920, quando il Torneo riprese e a Colombes Francia e Scozia si ritrovarono di fronte, decimate dal Grande Macello, e toccò a Charlie Usher, capitano, fare l’elenco di quelli che non c’erano più.

La musica, in Scozia, è sempre stata una faccenda importante, quella tradizionale che rimbalzava da glen a glen (di valle in valle), di loch in loch (di lago in lago), un mezzo di comunicazione tra chi seguiva le greggi, e quella delle canzoni – d’amore, di nostalgia, di ambiente agreste, di sapore politico – eseguite nei salotti della borghesia di Edinburgo e nelle sale da concerto della capitale. Una curiosa corrispondenza, in italiano, corse a lungo tra David Thomson, editore, intellettuale e melomane, e Joseph Haydn, tra la fine del Settecento e gli inizi del XIX secolo.

“Mio caro amico”, iniziava le missive Thomson. “Stimatissimo amico”, replicava l’austriaco Haydn inviando gli arrangiamenti, magnificamente stesi dal copista, e l’armonizzazione di canzoni delle Highlands e delle Lowlands, molte tratte dalle poesie di Robert Burns. Alla fine, un corpus mastodontico: quasi 500. “Mi vanto di questo lavoro”, scrisse il prolifico Haydn, sempre in corretto italiano, entusiasmando Thomson che aveva interpellato anche altri musicisti del continente, Beethoven compreso, per trovare collaborazione piena ed entusiasta soltanto in chi passò lunghi anni al servizio del conte Esterhazy, nella tenuta tra Vienna e Budapest. E’ evidente che anche senza l’incombente rete, le fulminee comunicazioni on line e i famigerati social media, un eccellente lavoro può esser svolto.

Ancora note e parole ricche di orgoglio: sono quelle che fanno da colonna sonora a “Tunes of Glory”, bel dramma di ambiente militare con Alec Guinness e John Mills (tragicamente tradotto “Whisky e Gloria”) e sono soprattutto quelle di Flower of Scotland (o Fhluir na h-Alba; in gaelico Alba è la Scozia), composta da Roy Williamson, del gruppo The Corries, negli anni Sessanta, per rinnovare il ricordo della battaglia di Bannockburn del 1314, quando l’esercito di Robert the Bruce sbaragliò quello inglese dell’imbelle Edoardo II.

La prima “applicazione” ovale è del 1974, quando Billy Steele decide di cantarla, con gli altri scozzesi, durante il vittorioso Tour dei Lions in Sudafrica. E’ un coro così minuscolo e illustre che val la pena riportarne tutti i componenti: oltre a Steele, che giocava per il Bedford e per la Raf, Andy Irvine, Ian McGeechan (nella storia dei Lions una specie di Rocca di Gibilterra), Ian McLauchlan, Sandy Carmichael, Gordon Brown.

L’investitura è del 1990, alla vigilia di una Calcutta decisiva per il Torneo e per il Grand Slam: “Basta con quella marcetta da turisti”. Dopo quel 13-7 l’allegra Scotland the Brave viene definitivamente rilevata da Flower of Scotland, un inno all’orgoglio, puntuto come un cardo, ma anche dolce come un favo di miele, lento come un corale, aperto a una partecipazione commossa: quando arriva il terzo verso, anche le cornamuse tacciono e solo le voci si levano. Loro sono una nazione, di nuovo.

 

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