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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
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I sentieri di Cimbricus / Anni Dieci: il simbolo e' il mondiale di Rudisha

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Domenica 29 Dicembre 2019


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Con questo articolo - sintesi della sensibilità e della cultura di Giorgio - si conclude il 2019 di SportOlimpico. Un bilancio? Molto è stato fatto, moltissimo resta da fare. Grazie soprattutto alla passione, alla competenza e alla partecipazione di chi ancora si ostina a credere che proprio tutto non sia ancora perso, ...


Giorgio Cimbrico

World Athletics, già IAAF, ha deciso: il gesto della decade è il record del mondo di David Rudisha, 9 agosto 2012, stadio Olimpico di Stratford, Londra: 91 centesimi oltre i 100 secondi per lasciarsi alle spalle un 800 in solitudine, in testa dallo sparo al nastro, come dicono gli inglesi. Spesso viene scomodato l’aggettivo “regale”: in questo caso è consentito. La caccia all’aggettivo giusto era scattata durante l’esercizio di scrittura, si era prolungata nel chiacchiericcio del dopo, aveva imboccato la notte. Risultati: “sublime” come i versi di Omero, “meraviglioso” come certe invenzioni ariostesche, “musicale” come l’arpa del re che porta il nome di David il masai, il gruppo etnico che non ha dato molto, solo eccelsa qualità: Billy Koncellah, per fare un esempio.

Ho tele-ricordi bianco e nero risalenti a quasi 60 anni fa, rinfrescati da poco, con la scomparsa di Peter Snell. Il più vivido trasporta l’immagine di Herb Elliott che decide di demolire avversari e record del mondo dei 1500 scegliendo l’occasione più importante. La foto diventata storica offre l’australiano con un vantaggio irreale su uno dei ”poulain” del generale de Gaulle, Michel Jazy, staccato di due secondi e mezzo. Il tempo di Elliott, 3’35”6, profuma ancora di moderno. Herb si ritirò di lì a poco: campione del Commonwealth e olimpico, primatista del mondo dei 1500 e del Miglio, sostanzialmente imbattuto, figlio di un tempo in cui lo sport era una magnifica parentesi da vivere all’interno della giovinezza. L’esistenza, quella vera, attendeva là fuori. Oggi è molto diverso.

Rudisha, che vive sull’altopiano ma non è un uomo dell’altopiano, ha l’intelligenza spiccata di chi sin dall’adolescenza ha maturato una scelta: allontanarsi dalla terra dei Masai, imparare l’arte della corsa da chi – padre Colm O’Connell – ha saputo insegnarla a centinaia di ragazzi di Iten, Eldoret e della sterminata varietà di villaggi che lambiscono la ferita profonda della Rift Valley, onorare in questo modo la propria razza e là tornare quando la stagione della caccia sarà terminata.

Dicono che quella sera, prima di partire, abbia detto al 18.enne Timothy Kitum, alla fine bronzo con un tempo straordinario : “Non venirmi dietro, rischi di farti male”. David sapeva di dover rendere meno affilati i “pugnali” di due giovanotti, del ’94 pure loro, l’etiope Mohamed Aman, che sul finire di stagione lo sconfisse all’Arena di Milano, e Nijel Amos, del Botswana, un tempo Bechuanaland, fresco campione mondiale juniores e già capace di correre in 1’43”10.

L’ordine di battaglia prevedeva un primo 200 velocissimo, una conservazione della velocità sino alla campana, un terzo tratto che ripetesse a palmi il secondo, un ultimo segmento in cui dar fondo a quel che rimaneva in serbatoio. Obiettivo: conquistare l’oro olimpico e portare il record del mondo nell’orbita dei 100”. I Giochi come un meeting, ma senza lepri, O meglio, con Rudisha lepre di se stesso, cacciatore di nuove frontiere.

David offrì un’andatura di un’eleganza, di una centralità tali da impedire di comprendere quale velocità riuscisse a sviluppare sin dalle prime battute. Lo urlò uno degli speaker, lo segnalò uno dei tabelloncini sull’erba: 23”19 ai 200, una dolce distribuzione di eleganti sberle e l’obbligo per gli altri di alzare il numero dei giri. All’apparenza tennero tutti, sino alla campana, passata in 49”28. David era imperturbabile, non degnò di attenzione un tentativo di affiancarlo del sudanese Kaki prima e di Aman poi, fece ruggire e fremere il pubblico quando il passaggio ai 600 annunciò 1’14”30. A quel punto doveva solo riscuotere. Amos, il ragazzo dell’Africa australe dalle braccia agitate come disordinate ali, si lanciò in un serrate formidabile uguagliando al centesimo, 1’41”73, il vecchio mondiale fiorentino di Sebastian Coe, deus ex-machina dei Giochi, quella sera estasiato per l’esaltazione della distanza più amata.

La celebrata finale di Atlanta, quella della vittoria del norvegese Vebjorn Rodal, con quattro sotto l’1’43”, venne spazzata dalla Corsa di Rudisha, che trascinò l’ultimo a correre in 1’43”77. La più grande gara della storia, dedicata a Daniel, il padre, argento nella 4x400 a Mexico ’68, patrimonio di tutti, ora simbolo storico di un’età, gli Anni Dieci

 

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