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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
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I sentieri di Cimbricus / Rivoluzione d'ottobre, in salsa matoke

Lunedì 14 Ottobre 2019

 

kosgei

 

A poche ore di distanza sono state scritte due pagine che spingono la Maratona verso territori inesplorati. Due chiavi diverse di lettura: all'alea tecnologica di Eliud Kipchoge ha risposto la sfida alla fisiologia di Brigid Kosgei.

 

Giorgio Cimbrico

La rivoluzione d’ottobre è una faccenda kenyana, è un doppio lavoro veloce sulla distanza più lunga, è un giorno di scoperta (un 12 ottobre colombiano e viennese, per Eliud Kipchoge) e, poco più di 24 ore dopo. è una corsa nella Città del Vento che tanto ventosa non è stata: buon per Brigid Kosgei che riesce in un’impresa non comune, strappare un record sotto gli occhi della detronizzanda: dopo Doha, Paula Radcliffe era a Chicago, dietro un microfono, per dare l’addio al vertice e ricordare che proprio lì, sulle sponde del lago, su quelle strade, aveva offerto la sua prima cavalcata disordinata e a segno: 2h17’42”.

Diciassette anni dopo, Brigid ha fatto quasi 4’ di meno, e 1’21” meglio della Radcliffe londinese annata 2003 quando qualcuno aveva scomodato Zatopek – e non solo per le smorfie – o Bikila. Ora, dopo quel 2h14’04” si tratta di scomodare chi è molto più vicino a noi nel tempo, il coreano Hwang che diventò campione olimpico a Barcellona ‘92 in 2h13’23”. D’accordo, faceva caldo e c’era la salita finale spezzacuote verso Montjuich ma i numeri sono questi e la curva dei tempi delle donne tende ad avvicinarsi: non è il caso di aver fatto studi di fisiologia per capirne i motivi. Brigid è l’ennesima in un anno prodigo di imprese materne e alle spalle ha una storia di miseria (scuola abbandonata prima del diploma perché di scellini in casa ne giravano pochi) che la corsa ha messo in un angolo.  

Non mi sento un modernista, il passato e molte semplicità perdute mi affascinano e soprattutto mi mancano, ma devo confessare che la corsa di Kipchoge mi ha coinvolto. Forse mi sono lasciato sedurre dall’istintiva simpatia che ho nutrito per lui sin da quella sera parigina del 2003 quando con quel crescendo armonico piegò Hicham el Guerrouj e Kenensa Bekele. Nessuno lo conosceva, così come incerta era la data di nascita che, in seguiro, venne stabilizzata sul 5 novembre 1984, nel distretto molto generoso delle Nandi Hills, in pieno altopiano affacciato sulla Rift Valley, la cicatrice che gli astronauti possono ammirare dallo spazio, un’incisione che parte dalla regione dei Grandi Laghi e prosegue sino al Corno d’Africa. Una volta mi è capitato di calarmici, passando da una parte all’altra dell’altopiano. Sul fondo una foresta fitta, di un verde tenue: gli alberi degli elefanti, li chiamano. Purtroppo di elefanti sono rimasti solo quelli di Amboseli, di Masai Mara e degli altri parchi, piccoli e grandi.

Se la calligrafia assoluta può esser ricercata in Steve Cram o in el Guerrouj, così come la ricerchiamo in una statua di Canova, per Eliud, nella Bibbia figlio di Eleazar, è necessario estendere il concetto, inoltrarsi in una sequenza di canoni per giungere a una definizione più alta, vicina all’assoluto. Kipchoge è oggi il depositario di un’arte, l’arte della corsa, che è confluenza di mille rivoli come il Nilo più segreto, quello che nasce da polle nel buio dell’Africa più nera, l’Ituri.

Eliud pensa, legge, corre, organizza se stesso all’interno di un condizionamento che prosciuga le membra (senza drammatiche scarnificazioni, una statua di Giacometti), che arricchisce il serbatoio dell’energia, che non trascura l’appoggio del piede e la spinta che ne deriva. Le Nike Next aiutano ma non sono gli stivali delle sette leghe, così come non basta correre 230 km alla settimana a 2000 e più metri di altitudine. Serve una disciplina, un ordine, un pensiero razionale. Kipchoge ha conquistato questi strumenti, li ha affinati. Non è un artista che vive di impeti, di tempeste, è un Palladio di se stesso, un architetto che il passare degli anni e l’accumulasi del denaro non ha cambiato nei riti quotidiani, nella semplicità dei quartieri d’allenamento e dei nei che accompagnano quei lunghi periodi di romitaggio.

E’ un patrimonio di saggezza che sa trasformarsi in un’infinita sequenza di gesti perfetti e che lo offre come depositario di cultura storica: il richiamo al record di Roger Bannister non può non essere apprezzato. Bolt, nel 2009, a Berlino, confessò candidamente che non sapeva bene chi fosse quell’Owens su cui continuavano a fargli domande. Persino un certo gusto della battuta esce allo scoperto (“Quando hai sentito che poteva arrivare la crisi?” gli hanno domandato. “Mai”, ha risposto con un sorriso compiaciuto e un poco astuto), così come una sincerità che lo ha portato a narrare la sua notte prima di dirigersi verso il viale della Hauptallee: “Sveglio alle 3, disteso sino alle 5. Un bicchiere di latte Poi le tre più tormentate della mia vita”.

Il primo passo è stato una liberazione, una trasfigurazione. Qualche secondo prima delle 10,15 era un uomo molto felice e molto più ricco: pare che Jim Ratcliffe gli abbia allungato un milione e mezzo di dollari nel quadro di un’operazione che ne è costata 20 e che si è rivelata un ottimo investimento per l’Ineos, spesso al centro di proteste degli ambientalisti, e per la Nike che aveva appena chiuso il Nop, il centro di allenamento di Albero Salazar e che a Vienna ha fatto confluire più lepri di quante se ne potevano cacciare a Godollo, vicino Budapest, uno dei luoghi di soggiorno venatorio più amati da Francesco Giuseppe.


Per il futuro si vedrà. Dicono che Eliud abbia firmato per Londra (in cerca della quinta vittoria) che cade perfettamente per chi, tre mesi dopo, darà l’assalto al secondo oro olimpico. Dicono che la sfida con Kenenisa Bekele potrebbe essere anticipata sull’asse Greenwich-Buckingam Palace. Se ne dicono di cose. Eliud ha deciso di concedersi due settimane per riposarsi e pensare.

P.S. - Non prendetemi per matto, sono solo un melomane. Mi domando perché la pubblicità del Fai, sulle meraviglie d’Italia, abbia come colonna sonora un Brandeburghese. Vivaldi, Corelli, Geminiani, Boccherini, Torelli, Pugnani, Marcello, Sammartini hanno scritto meravigliosi concerti. Su queste note e su quelle suonate dal magnifico Eliud, vi lascio. Per ora.

 

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