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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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I sentieri di Cimbricus / ANA, l'acronimo della mistificazione

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Venerdì 4 Ottobre 2019 (Notte)

 

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Atleti senza patria, senza bandiera e senza inno. Solo un acronimo, tanto freddo quanto ipocrita. Forse, come Sean Connery in "Casa Russia", siamo un po' tutti innamorati di quell'affascinante territorio disteso tra Europa e Asia.

 

Giorgio Cimbrico

Autorizzati a gareggiare, non a comparire. Ipocrisia dell’ipocrisia, quello che è stato raccolto dagli ANA non figura nel medagliere. Sono impestati? Sono lebbrosi? Ma nonsono stati quelli che comandano ad ammetterli? Sono degli innocenti in una rodina (patria) piena di reprobi, di colpevoli, di complici, di mimetizzatori, di distruttori di prove. E allora, se sono puliti perché non sono una squadra, perché pur senza bandiera e senza inno, i loro successi non figurano? Quando uno si divertirà a fare i conti delle medaglie e dei punti conquistati dai primi otto, si accorgerà che i conti non tornano.

Quelli della IAAF – che un tempo avevano ricchi e interessanti legami con Mosca si stanno comportando come Ceausescu che faceva ritagliare dalle foto ufficiabile teste dei giocatori di rugby che andavano in Francia.

Vittoria nell’alto con Mariya Lasitskene, vittoria nell’asta con Anzhelika Sidorova, secondo posto nei 110hs con Sergei Shubenkov, secondo e terzo nell’alto Mikhail Akimenko e Ilya Ivanyuk. Ho sempre avuto l’innocente mania di cercare la provenienza degli atleti: sui russi la ricerca è affascinante perché svela luoghi di sogno o di orrore, narra di russificazioni forzate o di un melting pot tra varie nazionalità molto diverse imposto da Stalin al tempo della colonizzazione delle terre vergini e della costruzione delle grandi centrali. Traducendo: si possono scovare nomi baltici in piena Siberia, bielorussi in Asia Centrale. Gli stipendi erano più alti e la tentazione forte.

Dei russi ANA due vengono dalla stessa piccola repubblica, il Kabardino-Balkaria, nel Caucaso, ma se Mariya Kuchina maritata con il lituano Lasitskas, ha le caratteristiche somatiche di quel piccolo popolo di radice iraniana, famoso per allevare cavalli, Mikhail Akimenko, comparso dal nulla e capace di minacciare il resuscitato Barshim, ha più l’aria di appartenere a una stirpe russa che andò a insediarsi in quella turbolenta regione, il Far West della Russia zarista, ancor oggi un’area percorsa da fremiti per un’autonomia sempre più larga.

Sergei Shubenkov è siberiano di Barnaul, addossata ai monti Altay e Anzhelika Sidorova, Aleksandrovna il patronimico, figura nata a Mosca ma con origini in Chuvasha, la regione dei marciatori spazzati dalla Grande Retata, a cominciare dal guru Viktor Shegin, una zona di incerto confine tra Europa e Asia. Russo di radice più salda e tradizionale è Ilya Ivaniuk, il più piccolo della finale: viene dalla regione di Smolensk dove sia nel 1812 che nel 1942 si combatterono aspre battaglie.

Anche se l’ora è ormai tarda e la maggior parte dell’attenzione è finita sul record del mondo della raffinata newyorkese di fede islamica Dalilah Muhammad (ma la sua erede, Sydney McLaughlin, è sempre più vicina), sull’eleganza di Steven Gardiner, irrotto ai vertici storici dei 400, sulla carica istrionica dii Conseslus Kipruto (per un centesimo il regno kenyano ha retto), sulla palingenesi di Mutaz Essa Barshim, ho voluto parlare della squadra che non c’è. Forse, come Sean Connery in “Casa Russia”, anch’io sono un po’ innamorato di quel bislacco paese. E poi penso anche a tutti quelli che non hanno bisogno dell’autorizzazione e hanno pure bandiera e inno.

 

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