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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / Sempre piu' scolorito “proibito proibire”

Giovedì 25 Luglio 2019

 

sun


Ma stiamo diventando pazzi? Adesso anche gli atleti pretendono diritto di parola? Ma se lo concediamo agli dei del pallone, la stessa libertà non può certo valere a tutti. Tanto che anche il CONI aveva vietato di protestare, …

Giorgio Cimbrico

Ma dove andremo a finire se gli atleti prendono la parola, dicono le loro opinioni, protestano, si incazzano, mostrano di non essere dei bambocci, dei manichini? Forse qualche crepa finirà per correre sulla facciata delle corporazioni, sul loro potere. Pensate, è bastato un gesto – Mack Horton non sale sul podio per non trovarsi accanto a Sun Yang – per scatenare l’effetto domino: Duncan Scott che evita la stretta di mano e la foto di gruppo accendendo l’ira e le male parole (“sei un perdente e io un vincente”) del cinese, Adam Peaty che non ha difficoltà a dire come le pensa (“Duncan ha fatto bene. Ma quello cosa ci sta a fare qui?”), Dawn Fraser, ultraottuagenaria gloria australiana che non si fa problemi a usare il termine “truffatore”.

In tutto questo la FINA, dopo aver ammonto Horton, tace, la tattica preferita dai colossi che spesso hanno i piedi di argilla. Ricordate la IAAF di Lamine Diack?

Era sufficiente dire ai cinesi: tenetelo a casa e aspettiamo quel che a settembre dirà il TAS dopo aver esaminato l’esposto della WADA su quella visita domiciliare che Sun non ha gradito. Non l’hanno fatto e così hanno finito per dare voce a chi, secondo loro, dovrebbe stare zitto e mettere le mani sui dividendi che toccano. Gli atleti sono dei dipendenti, dei prestatori d’opera, ma chi comanda ha dimenticato che sono anche la forza-lavoro. E il diritto di parola lo avevano anche al tempo del signore delle ferriere. Che poi ottenessero qualcosa, non è detto. Però ci provavano.

Ricordo che prima di Pechino provai un po’ di disgusto di fronte all’ukaze del CONI: non si poteva manifestar in favore del Tibet, non si poteva protestare nei luoghi olimpici, a cominciare dal podio attorno al quale spira un’aura di sacralità. Chi non avesse rispettato queste disposizioni (io li chiamerei ordini), sarebbe stato punito con un crescendo di provvedimenti. Devo dire che non fu solo il CONI a emettere il decalogo di comportamento e devo aggiungere che era previsto un luogo preposto alla contestazione. Non so dove fosse, non l’ho cercato e non so nemmeno se qualcuno ci si andato. Deve essere stato più o meno come il cortile in cui andavamo a fumare dopo aver scritto un pezzo e prima di attaccare il secondo.

Quel che è successo in questi giorni segna comunque il primato dello sport sul calcio che come è noto con lo sport non ha più da tempo nulla a che fare. Più ancora che in politica o in diplomazia, ogni parola può essere destabilizzante, spezzare delicati equilibri, provocare terremoti che neppure a Wall Street.

Delle tante avvilenti scene trasmesse da una tv specializzata in un martellante mercato, sono stato colpito da questa: un nugolo di giornalisti attornia e segue Federico Chiesa che procede con lo sguardo fisso davanti a sé. Gli chiedono come sta: “Bene”. E il più audace si spinge a interrogarlo sul suo futuro. Risposta normale: “So che la Juventus è interessata a me”. Risposta reale: silenzio scocciato.

Ero molto giovane quando sui muri di Parigi scrivevano “proibito proibire”, quando si cadeva in amore per Julie Christie e per il sitar di Ravi Shankar, quando andavamo a vedere Godard e non ci capivamo una mazza, quando scoprivamo Kerouac e Hesse, Orwell e Huwley, Hemingway tradotto da Fernanda Pivano e il primo De Andrè. Quando ogni cosa era buona per decorarla con un’infinita collana di parole, di opinioni, senza nascondersi, senza abbassare gli occhi. Parlare con la bocca e con il cervello, non con le dita, era la vita e dovrebbe ancora esserlo.

 

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