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I sentieri di Cimbricus / Il caso Semenya, tra pregiudizio ed orgoglio

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Lunedì 6 Maggio 2019

 

semenya-doha

 

A conclusione del più difficile e controverso processo della storia dello sport, è stato emesso un verdetto che farà discutere a lungo, e le cui conseguenze potrebbero arrivare molto lontano. E, perchè no, suggerire uno sguardo ad un passato mai indagato.

 

Giorgio Cimbrico

In passato non ho nascosto di non provare simpatia per Caster Semenya. Oggi eccomi reduce da una via di Damasco – senza cascare da cavallo, però … -perché in questo mondo di chiacchiere vane, di parole vuote, di opinioni di cui non si sente il bisogno, portate dalla marea sporca e dalla pioggia acida dei social media, Caster ha risposto con i fatti e lo ha anche detto: “Le azioni sono più importanti delle parole”. In fondo alla settimana più difficile, a quello che la stampa britannica ha definito il più delicato processo sportivo della storia (anche più del caso Pistorius), ha deciso di andare a Doha per correre, vincere sotto gli occhi di Sebastian Coe che aveva appena affermato che “i principi erano stati riaffermati”. Il nuovo regolamento va in vigore l’8 maggio. Caster ha corso in piena legalità.

Ha sbaragliato tutte, iperandrogine e no, affibbiando distacchi memorabili, da cronoprologo, chiudendo due centesimi sotto 1’55”, il suo quarto tempo di sempre, a poco più di un secondo e mezzo dal record di Jarmila Kratochvilova, stabilito nella galassia lontana di trentasei anni fa, quando tutto era possibile e permesso.

È triste, oggi, osservare che a questa galoppata, nelle ampie cronache del sito IAAF, siano state dedicate cinque righe scarse. Al fianco del 70.56 del discobolo svedese Daniel Stahl e del 19”99 di Ramil Guliyev è stata di gran lunga la miglior prestazione del primo appuntamento della Diamond League, senza considerare tutto quello che Caster aveva alle spalle, quel che aveva vissuto nell’attesa del verdetto “discriminatorio ma giustificato”, secondo la formula machiavellica dei tre giudici del CAS che, peraltro, non hanno trovato l’unanimità.

Semenya ha alzato il pugno chiuso, ha scagliato il mazzo di fiori, è riuscita a stemperare la rabbia in un sorriso che ha preceduto un fiume di parole che è raro sentir da lei: “Vivere, vivere sino in fondo, allenarsi, correre. Per me l’impossibile non esiste, è nulla. Credo nella sportività e quello che lo sport insegna è tener duro nonostante le difficoltà. So che la vita può essere difficile ma credo che ci sia sempre una via per risolvere i problemi. Uno dei miei più convinti pensieri è che c’è sempre un modo. Se un muro è posto davanti a me, lo salto. Non so ancora come, ma so che tra qualche mese sarò ancora qui, su questa pista. Ho fiducia nei miei legali”.

E così tutti quelli che avevano annunciato il ritiro, l’addio, la resa, devono rinfoderare quel finale di partita davanti chi è orgogliosa di esser diversa, di aver avuto un dono, non una mostruosità, di poter contare sulla solidarietà del suo paese che stava celebrando il 25° anniversario del ritorno alla democrazia. E così qualcuno si è spinto a dire che quella sentenza della Corte arbitrale dello sport era razzista, riportava al tempo oscuro e orrendo dell’Apartheid. Il paese dell’arcobaleno disegnato da Nelson Mandela ne ha fatto un’ispiratrice, un’eroina, una Giovanna d’Arco del XXI secolo. Senza rogo. E da un paio di giorni può anche contare sull’appoggio dell’Associazione medica mondiale che ha forti riserve sia etiche sia sostanziali sulle ricerche fisiologiche effettuate durante l’interminabile dibattito.

Darà battaglia, è certo. Ma quel che mi chiedo e magari tanti altri vecchi suiveurs come me si stano chiedendo, è perché questo regolamento sia riferito solo alle distane tra i 400 e il miglio. Sembra il riflettore che a teatro abbatte il suo raggio sull’attore che recita il monologo. Valori alti o mostruosi di testosterone non aiutano anche chi corre i100, chi salta in alto, chi lancia il peso? O le DSD, le atlete con differente sviluppo sessuale, abitano solo nei pressi del doppio giro di pista?

Considerazioni che portano rapidamente al passato quando iperandrogine non per natura, non per combinazioni pazze della genetica, ma per costruzione sistematica hanno raggiunto record del mondo che, rapportati ai risultati del nostro tempo, appaiono grotteschi, ma in assenza di prove certe, di esami approssimativi, di riesami mai fatti, di campioni fisiologici ormai introvabil, mantengono il loro posto. Rileggere la tabella dei record del mondo fornisce la migliore delle riflessioni, senza perdersi in altri esercizi dialettici, scritti o orali. Basta un esempio, transitando con disinvoltura alla sfera dell’altro sesso: il 23.12 di Randy Barnes. Due settimane dopo, venne trovato positivo e squalificato per 27 mesi, e in seguito a vita. C’è anche lui in questa galleria che pare la casa degli spettri del Luna Park. A ogni svolta, qualcosa di ridicolmente spaventoso o, se preferite, di spaventosamente ridicolo.

 

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