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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
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I sentieri di Cimbricus / Storie del deserto che strego' Gordon Pasha

Martedì 16 Aprile 2019

 

khartoum_film

 

I giornali e i telegiornali tornano a parlare degli orrori che il Sudan ha provato e continua a provare: il genocidio, la fame, la sete, la sopraffazione, la malattia, i malcelati interessi delle potenze. 

 

Giorgio Cimbrico

Abbacinante, un aggettivo che crea in fretta un effetto, perfetto per sconfinare nell’effettaccio, specie se accompagnato da un rullar di tamburi, dal tintinnare dei finimenti dei cammelli. È l’unico per capire il Sudan, un’infinita distesa bianca, spaccata dalla striscia azzurra del Nilo; orizzonti tremolanti nella calura, truccati dal miraggio. Paese di sole spietato, di fango, d’acqua. A sud, verso Equatoria, verdissimo. Il Sudan è Africa araba, è Africa Nera. T. H. Lawrence si innamorò del deserto dell’Arabia che i romani chiamavano petrea: sabbia che tende all’arancione, cattedrali di arenaria, pinnacoli scuri, gole, cespugli e fichi stenti che tentano di conquistarsi un piccolo spazio vitale, piccole fonti, pozzi da cui pescare acqua sabbiosa e salmastra.

C’era fascino in quel nulla caldo e freddissimo. Charles George Gordon, ambizioso e contemplativo almeno quanto l’uomo della rivolta araba, si innamorò del nulla assoluto del Sudan: deserto e steppa inospitale, teatro perfetto per un asceta che trovò quel che cercava a Khartoum, due fiumi che si incontrano formando il disegno di un bastone da rabdomante: Nilo Azzurro e Nilo Bianco diventano il Nilo che unisce il cuore di tenebra dell’Ituri e gli altopiani d’Etiopia al Mediterraneo.

Gordon cadde in amore per la gente del Sudan: c’erano, in loro, le virtù, i pregi, i difetti, le delizie, gli orrori che solo un lettore della Bibbia poteva capire a fondo l’Africa araba dei mercanti di avorio e degli schiavisti era penetrata nell’Africa profonda dei cacciatori, delle tribù, dei magnifici Dinka, e aveva imposto l’Islam. Gordon si era sentito giudice e padre, condottiero e fratello in armi: in un esercizio di superbia che non avrebbe mai confessato, si era trasformato nel dio giusto e fermo della sua visione.

Di Gordon sono rimasti un monumento sulla riva del Nilo e la leggenda sulla sua morte. Risponde a verità, come nella stampa che finì in tanti salotti vittoriani, che affrontò l’orda dei mahdisti con un frustino, scendendo con calma sovrumana le scale del governatorato? Era il 26 gennaio 1885 e il Mahdi, l’inviato dal Profeta, poteva dire che la prima parte della sua missione era stata portata a compimento. Sarebbe morto, forse per tifo, pochi mesi dopo, e non avrebbe pregato al Cairo, alla Mecca, a Costantinopoli.   

Tutte queste vecchie storie frullano in questi giorni, mentre i titoli dei giornali e dei telegiornali tornano a parlare degli orrori che il Sudan ha provato e continua a provare: il genocidio, la fame, la sete, la sopraffazione, la malattia, i malcelati interessi delle potenze, le elezioni che hanno stabilito la nascita del Sud Sudan nero, destinato a staccarsi dal Sudan arabo che pochi giorni ha visto, trent’anni dopo, la caduta del dittatore al Bashir, la protesta popolare, l’apparire di un simbolo femminile in un paese dove la donna hanno sempre avuto poco spazio.

Chi sbriga con una formula (la maledizione del Sudan) non sa, non vuol sapere che quelle fiamme sono state il roveto ardente di una storia infinita, sono stati vita che diventa morte per tornare vita in un ciclo che si avvolge su se stesso come la spira di un serpente.

Le stagioni del Sudan sono sempre uguali. Non ne capirono nulla né Garnet Wolseley né Herbert Horatio Kitchener quando scesero il Nilo con il sottogola che cingeva il mento, gli occhi ardenti di chi voleva portare in salvo il buon cristiano Gordon avviato al martirio e gli occhi freddi di chi voleva vendetta. Il corpo cammellato inglese, fresco di conio, scendeva lentamente, ondeggiante, verso le cateratte. Fu persino costruita una ferrovia a scartamento ridotto che tagliava l’infinita ansa di Atbara. Là, nel nulla, un fischio e uno sferragliare.

Winston Churchill era pragmatico, brusco: anche nelle sue opere storiche e letterarie c’è poco spazio per la poesia. Colse il Sudan in un attimo e in una luce che cresceva: capitò quando venne mandato in avanscoperta e l’alba, avrebbe detto Omero, comincia a tingere il giorno con le sue dita dorate. Quel giorno del settembre 1898, davanti ad Omdurman, il tenente degli ussari (e corrispondente di guerra aggregato al corpo di spedizione che doveva liquidare una volta per tutti i ribelli mahdisti), vide i guerrieri con la cotta di maglia e quelli che Kipling battezzò huzzy fuzzy, dai capelli come un intrico di rovi, vide gli stendardi verdi, ebbe salva la vita non perché fosse abile nel maneggiare la sciabola ma solo perché fece uso della fidata Mauser. Non dimenticò quei giorni di avventura vissuti contro nemici feroci, più onesti di quelli che di lì a poco avrebbe incontrato ai Comuni.

Fu dopo quell’ultima carica imperiale che, ancora una volta, sul Sudan venne tirato il sipario. Di quel luogo immenso, ostile, sconosciuto si tornò a parlare quando Hailé Selassie, con l’aiuto britannico, tornò a reclamare il suo trono scacciando gli italiani dalla loro effimera Africa Orientale allargata all’Etiopia. Dal Sudan mosse un corpo di spedizione che pareva l’esercito del gran re Dario: sudanesi dai denti appuntiti come picchetti per la tenda, sudafricani di razza olandese o in kilt scozzese, fucilieri kenyani e ugandesi, volontari ebrei, cammellieri yemeniti. Ripercorsero le stesse piste battute da un avventuriero italiano – Romolo Gessi – inviato da Gordon a combattere i commercianti d’uomini e d’avorio: dal deserto all’aria fina dell’altopiano.

E poi, nello scorrere del Nilo e della sabbia, portata dal ghamzin, uno dei venti che spirano sul deserto, del Sudan si tornò a parlare per le carestie, per le spaventose foto di bambini tormentati dai Quattro Cavalieri, per le scorrerie degli uomini del regime di Khartoum contro le popolazioni nere, per l’abnegazione di un pugno di missionari. Ora, altre storie, altri drammi, altre speranze, altre albe su quell’immensa incudine dove batte il sole.

 

 

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