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I sentieri di Cimbricus / Var o il pianeta delle scimmie

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Martedì 26 Febbraio 2019

 

scimmie

 

Se è vero che ormai solo la tecnologia guida i passi dell'umanità, si è ancora liberi di pensare che il Var e le altre diavolerie hanno nello sport - più o meno - il sapore del riso scotto e non condito? O il pensiero unico non lo consente? 

 

Giorgio Cimbrico

Se War era l’ultimo capitolo del Pianeta delle Scimmie, Var può essere il primo del Pianeta dello Sport che hanno deciso di farci vivere, da scimmie obbedienti. Quelle della saga a un certo punto avevano il pregio di incazzarsi. Domenica Fiorentina-Inter è durata un paio d’ore. Ma non dicono che la tv impone tempi rapidi, scanditi, in una parola forzatamente divertenti? Come le corporazioni senza volto che governano scenari di un futuro sempre più prossimo e venturo, il Var ha preso il potere, costringe all’esame, spazza via l’autonomia di giudizio dell’arbitro, in nome di un’esattezza che ha il gusto del riso scotto e non condito.

Vorrei organizzare una tavola rotonda di spettri invitando Jonni di Macerata, Baralla di Livorno (citato come severo ma irascibile nei Soliti Ignoti), Lo Bello di Siracusa e Agnolin di Bassano, aprire una discussione sui compiti e gli effetti del Var e raccogliere gli atti che ne potrebbero derivare.

Ricordo che senza il Var Concetto (“un siciliano alto sei piedi”, scrisse una volta il Times stupendosi che esistessero siciliani così alti) scovò un piede di Salvadore che ancorava a terra quello di Gigi Riva, impossibilitato a saltare di testa. Fischio, indicazione del dischetto del rigore tra lo stupore generale, anche quello – è giusto dirlo – dei giocatori del Cagliari. Un repertorio da primadonna, un gesto che, per citare Molière, non poteva che stupire il pubblico, generare dibattiti, non social naturalmente. Ma anche un gran colpo d’occhio, non elettronico.

Adesso i successori di Concetto e dei suoi illustri colleghi passati a miglior vita dicono che è gol, oppure indicano il dischetto, vengono richiamati tramite cuffietta, aspettano decisioni, descrivono nell’aria un rettangolo, corrono alla postazione tecnologica, tornano in campo portando la buona o la cattiva novella badando a non smarrire la bomboletta con la schiuma da barba che portano in tasca. I tempi sono dilatati. E fossero solo i tempi. Si avverte una caduta generale dello spirito, della tensione, l’assenza di qualcosa che volava nell’aria: l’odore dell’imprevedibile, il profumo del passo nell’ignoto.

Più o meno lo stesso sta capitando nel rugby che prevede non solo l’esame dell’episodio determinante ma, spesso, il riesame di quel che è avvenuto due, tre fasi prima: mete da cancellare, azioni, magari bellissime, che ci sono state e che a quel punto diventano virtuali, un ricordo da attimo fuggente.

E così mi è venuto in mente quella partita del 16 dicembre 1905, a Cardiff: pioggia, freddo, fango, il giorno della non meta di Bobbie Deans. L’arbitro di Galles-All Blacks era Dallas, uno scozzese che, viste le condizioni, diresse in pastrano e scarponi e quando arrivò sul “luogo del delitto”, disse che non era meta, che Deans era stato placcato da Thys Gabe. I neozelandesi rischiavano di perdere l’unica partita del loro travolgente, lunghissimo tour e Deans che era un giovanotto a modo (destinato a scomparire giovane per una banale appendicite trascurata) giurò e spergiurò che aveva segnato e che il gallese l’aveva portato indietro mentre Dallas arrancava nella guazza. Non ci fu verso. Dallas disse che non era meta e corse alla stazione: aveva un treno che, via Midlands, lo avrebbe portato verso casa. Con il Var o con il Tmo non sarebbe stata scritta nessuna leggenda.

 

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