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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





Italian Graffiti / In memoria dell'ultimo dei Profeti

Domenica 28 Ottobre 2018

 

berra-1946

 

Vent'anni fa si spegneva in solitudine Alfredo Berra, giornalista, animatore, sognatore. Per non dimenticare.

 

di Gianfranco Colasante

 

Ho incontrato per la prima Alfredo Berra nella mattinata del 10 aprile 1965, alla stazione di Verona, città che quel giorno ospitava il congresso dell’AISAL, piccola e defunta parrocchia di accoliti della quale, quel giorno, fui eletto alla presidenza. Prima, e per molto tempo, c’era stato solo uno scambio di lettere: le mie partivano per “fuori-sacco” (che non spiego a chi non le ha conosciute), le sue arrivavano con le piccole buste rosa della “Gazzetta”, giornale che a me, studentello distratto, aveva offerto una piccola rubrica di riflessioni che sulla "rosea" usciva di mercoledì. Si chiamava: “La Settimana di Colasante”.


Erano quelli tempi nei quali la passione per l’atletica, vissuta con slanci e turgore, era coinvolgente e sanguigna: si nutriva di genuini entusiasmi e si alimentava di scontri dialettici quasi fisici, ma erano anche i tempi nei quali – nel nome di una comune e orgogliosa appartenenza – si potevano stringere amicizie destinate a durare una vita.

Quella che io ho avuto per Berra dura ancora. Anche se trasferita da anni nel silenzio della memoria. Per l’ultimo dei profeti per una religione laica. Quando lo seppellimmo, a Grottaferrata, in un giorno d’estate, di vento e di sole, non eravamo in molti. In un silenzio greve, interrotto solo dagli irrefrenabili singhiozzi di Giorgio Lo Giudice, che gli era stato nel contempo figlio e custode. Non ricordo tutti gli altri volti: c’erano Paola Pigni, Ruggero Alcanterini, Renato Biagioli. Il tremito delle mani. Scuseranno i pochi altri che qui trascuro. Mondi ed epoche diversi richiamati dalla stessa campana a morto.

L’immagine che sin da quel primo incontro conservo di Berra, mi rende i tratti di una personalità complessa, articolata, ombrosa e scintillante, morbosa e passionale, a volte iraconda, ma sempre acuta e intellettualmente viva. Scolpita da frasi taglienti, trasferita nello scritto con una prosa faticosamente prolissa, lunghi periodi nei quali era possibile smarrire il percorso. Ma mai il senso. Personaggio controverso. Nella vita, più adatto ad ambigue pagine di Gide o Peyrefitte che all’iperbolico immaginario delle cronache sportive. Come suggeriva quella sua chiassosa risata nella quale vibrava più d’una nota nevrotica, quasi d’angoscia repressa.

Nell’aspetto fisico, che il benessere raggiunto nel giornalismo milanese aveva fin troppo arrotondato, non c’era più sembianza di “quell’affamato profugo polacco” ch’era stato agli inizi della sua militanza romana, quando aveva rifondato l’atletica cittadina muovendosi a piedi – con le “scarpe sfondate” – tra le Terme e la Farnesina, le due stazioni della sua missione. Un sofferto e lungo compitare riassunto nel modesto e aulico “Senza cena”.


Era il tempo della sua militanza ascetica, quello delle mele, nel senso che le mele avrebbero costituito per anni un energetico, ma spartano, sostituto a pranzo e cena assieme. Ogni altra scarsa risorsa destinata allo sviluppo delle sue idee. Ora quello sdrucito impermeabile dalle tasche sformate, e gonfie di tutto, s’era cambiato in un cappotto di vigogna dal collo di pelliccia. Nel viso rotondo, di quel gonfiore che segna chi ama star sveglio di notte, colpivano gli occhiali d’oro alla Bassani e il turgore delle labbra, dischiuse in un respiro quasi affannoso e dal colorito tendente ad un violaceo acceso.

Scorrevano gli ultimi anni Sessanta. Gli anni d’un benessere svogliato che spingeva alla pigrizia, sussulti dell’esistenza che già annunciavano gli inganni del Sessantotto. Quando a noi l’atletica pareva ancora la “ragazzina dai capelli rossi” e gli orizzonti della nostra vita di ventenni, o poco più, erano ristretti nel recinto magico dell’Acquacetosa, con la sua pista in terra rattoppata e gli alti gradoni di cemento sbrecciato: il vecchio stadio del Governatorato ch’era diventato il nostro campo della via Paal.

Berra si è spento nell’agosto del 1998 – venti anni fa – ucciso più dalla solitudine che dal male che l’aveva quasi immobilizzato. Tracciando un epitaffio per quella morte, Oscar Eleni, mio confratello in quella stessa religione, che gli fu allievo prima che successore alla “Gazzetta”, anche a nome di chi restava (ed erano in molti), assunse un impegno corale e commosso: “Addio, Maestro: sul tuo altare non si poserà mai la polvere”. Un vaticinio dettato dal cuore e graffiato nell’anima, ma purtroppo destinato a non avverarsi.


dalla pagina FB "senza cena"

(Questo è solo l’incipit di una storia molto più ampia, già scritta e ancora da scrivere, una pagina che ogni tanto riapro per aggiungere qualcosa dei ricordi di un mondo che non c’è più: se un giorno riuscirò a chiuderla, ve lo farò sapere).


 

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