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I sentieri di Cimbricus / Non esiste un caso Tortu, solo un progetto

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Giovedì 30 Agosto 2018

 

tortu-18

 

Dal marasma dei giudizi post-Berlino, non sempre benevoli, emerge una strada già tracciata che porta a Tokyo 2020.

 

di Giorgio Cimbrico

Il caso Tortu non esiste; un progetto Tortu, sì. Progetto è una parola che in Italia si ascolta spesso, ma che di rado viene applicata in quel che è il suo significato: disegnare linee guida, programmare, calarsi nei fatti, dare forma, realizzare, giungere all’obiettivo. Ho rimasticato questi concetti sia nei giorni berlinesi sia in quelli che sono seguiti, quando la prima parola è stata “delusione”, seguita da un movimento bradisismico sempre più accentuato. Possibile che Filippo non avesse gareggiato per 45 giorni dopo il fascio di luce disegnato sulla pista di Madrid? Possibile che chiudesse la stagione, per di più con vacanze al mare nella natia Sardegna? Altre domande, con allusivi punti interrogativi: davvero quell’eliminatoria in staffetta, finita male, aveva lasciato tracce sui muscoli, sui tendini? E quella rinuncia alla Continental Cup?

Un ribollire, uno schiumare che portano diretti al tempo in cui la casalinga di Voghera non condivideva i tempi di strambata di Luna Rossa o il troppo prolungato uso del genoa in luogo di una vela più, terribile aggettivo, performante. Tutti esperti di metodologia dell’allenamento, per di più di quel meandro misterioso dello sprint, tutti strateghi nella programmazione della stagione, delle sue scadenze. Tutti affacciati su uno stagno che non riflette quel che è stato, disperdendolo in onde pigre, appena accennate: il 9”99 del quarto ventenne capace di forzare quella barriera, il 10”04 di media delle sue prime cinque prestazioni, le rese a cui ha costretto Coleman e Simbine. Rimane il quinto posto di Berlino, quello sì non è stato dimenticato, portato come prova a carico.

Qualcuno ha detto che il clan dei Tortu cerca i tempi in situazioni favorevoli. Ma tutti quei tempi che, in una lunga vita di suiveur, abbiamo annotato provenienti da ventose località della Florida, del Texas, o più di recente, dal veld sudafricano a 1800 metri di altitudine, non sono stati ottenuti in situazioni favorevoli da atleti che nel tour europeo abbiamo visto annaspare venti centesimi più lenti? Non risulta che Savona e Madrid abbiano le caratteristiche di Echo Summit o di Flagstaff o certi corridoi che Eolo concede a chi scende in pista a La Chaux de Fonds.

Non è il caso di soffermarsi troppo su questi particolari. Quel che importa era nella prima riga, il progetto. Il giorno dopo la finale dell’Olympiastadion, Salvino, molto lontano dall’essere sconvolto, mi confermò quel che mi aveva detto nell’avvicinamento a Berlino: aveva rafforzato il telaio di Pippo, insieme avevano compiuto un altro passo sulla strada dello sviluppo tecnico e fisico: i tempi erano lì. Ora il cammino può esser etichettato come complesso e semplice: la media del 10”04 fra un anno dovrà scendere, con un picco attorno ai 9”95 e con un inserimento stabile, e non episodico, dei 200 che, continuo a pensare, possano diventare, per usare una definizione cara a Roberto L. Quercetani, la sua specialità di parata per le Olimpiadi parigine del 2024.

Per le prossime, a Tokyo 2020, il primo obiettivo saranno ancora i 100. Per quell’appuntamento è già stato fissato un tempo: 9”89. Pippo ha dieci centesimi da regalare a suo padre che non porta la paglietta e non fuma il sigaro come Sam Mussabini?

Il dibattito è stato lungo e piuttosto stucchevole e ha finito per allontanare da una realtà severa: dopo non aver raccolto corone mondiali e olimpiche (le ultime nel 2003 e nel 2008), Berlino ne ha negato anche una europea. Al di là delle belle prestazioni dei giovanissimi e dei giovani, delle resurrezioni di Vallortigara e Tamberi, il verdetto è severo e invita, più che alla riflessione, a una strambata decisa, non di quelle messe sotto accusa dalla casalinga vogherese. E in tutto questo scenario che può esser etichettato come ciascuno vuole, in toni lievi o drammatici (limbo, purgatorio, calvario, azzurro tenebra), c’è un giovanotto di vent’anni e meno di tre mesi che ha corso in 9”99, che in zucca non ha neanche un sogno (i sogni rimbambiscono: guardate quelli di X Factor) ma solo un progetto. Che in Italia chissà come si scrive, si pronuncia, si applica. Ma lui, anzi loro, vogliono provarci, andare avanti. Un bel brindisi con un bicchiere di Argiolas. Brianzoli, sì, ma sardi dentro. (foto Colombo/Fidal).

 

 

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